Una storia di dolore e rinascita, di determinazione e di voglia di indipendenza. John Dyer Baizley è il leader dei Baroness, quartetto che ha fondato 15 anni fa a Savannah in Georgia. La band arriva alla svolta pubblicando l’album Yellow & Green nel luglio del 2012. Dopo ottime recensioni, il disco entra in classifica negli Stati Uniti e in Gran Bretagna. Un mese dopo il gruppo è in tour in Inghilterra. Il 15 agosto il loro bus, nei pressi di Bath, sbanda per la pioggia su un cavalcavia e precipita nel vuoto. Per miracolo non muore nessuno, ma il bilancio è pesante: tutti i membri del gruppo finiscono all’ospedale. Baizley rimane ricoverato per settimane con un gamba fratturata in più punti e un braccio così malridotto da far pensare ai medici che la soluzione migliore sarebbe l’amputazione. Il batterista della band Allen Blickle e il bassista Matt Maggioni riportano fratture alla colonna vertebrale. Il solo a riemergere indenne è il chitarrista Peter Adams. Quel giorno ha lasciato nella storia della band segni molto profondi, Blickle e Maggioni hanno abbandonato il gruppo, John Baizley ha salvato il braccio, ma ha dovuto affrontare un lungo periodo di convalescenza, imparando nuovamente a suonare la chitarra, cercando di gestire il dolore cronico e di riemergere dallo shock e dalla paura. Tutto questo è confluito in Purple, il nuovo album firmato dai Baroness uscito lo scorso dicembre, disco che è stato giudicato tra i migliori lavori hard rock-heavy metal dell’anno. «Per un periodo tutto quello che ho fatto era un tentativo di capire se mi era rimasto ancora qualcosa», racconta Baizley prima della tappa milanese del tour europeo della band. Costretto a rimanere diverse settimane in un ospedale inglese, rientrato negli States, ha dovuto capire se fosse possibile tornare alla musica e come. È ripartito non dal metal psichedelico dei Baroness, ma dalle ballate acustiche del cantautore country texano Townes Van Zandt.
«Sono tornato a casa e ho inciso queste canzoni acustiche con la cantante Katie Jones (i brani sono confluiti nella raccolta «Songs of Townes Van Zandt» della Neurot Records, ndr). Ho dovuto imparare nuovamente a suonare. Ho investito in alcune strumentazioni tecniche per iniziare ad allestire uno studio. Tutto è stato in funzione della volontà di riprendermi. E lo stesso lavoro di scrittura e composizione è stato una riabilitazione. Prendi qualcosa che hai in te e che è angosciante e lo porti al di fuori, lo esprimi, cerchi di articolarlo con qualcosa di più di semplici parole. E poi lo stesso atto del lavorare, dell’impegnarsi, rappresenta un modo per andare oltre».
Baizley che è anche un grafico e disegna tutte le copertine e il merchandising della band, ha fatto confluire gli incubi e le paure di quei mesi nelle canzoni di Purple e nelle ricche illustrazioni dell’album, realizzato con due nuovi membri Nick Jost e Sebastian Thomson. Un album compatto e feroce e allo stesso tempo melodico ed epico, pieno di riferimenti al dolore fisico e alla difficoltà della malattia.
In uno dei brani di punta della raccolta, Chlorine and Wine, Baizley parla da paziente, steso su un letto e che prega all’infermiera di togliergli il dolore, in Iron Bell canta di «mille demoni che urlano nella mia testa», in Try to Disappear della difficoltà di respirare. «L’idea di cantare ogni giorno le canzoni che mi rimandavano all’incidente all’inizio un po’ mi spaventava – spiega Baizley – ma ho imparato anche a separare le cose. Il significato delle canzoni è comunque destinato ad evolversi man mano che le suoni, che le interpreti, perché tu invecchi, la tua vita cambia e il significato di quelle parole si sviluppa in modi differenti. Essere diretto, esplicito nel racconto delle proprie esperienze inoltre fa anche sì che il pubblico si relazioni ad esse. I nostri drammi, i nostri lati oscuri, lo stress, l’angoscia, il dolore, la sofferenza, la frustrazione sono molto funzionali alla musica perché ognuno è in grado di rispecchiarsi in questi sentimenti. Il linguaggio può non essere nella tua lingua madre, ma quello che io ho sentito so che non è unico e accomuna molte persone. Un punto importante per me in questa vicenda, un momento di svolta, è stato capire che quello che ho vissuto non mi ha reso unico, né speciale. Mi ha reso esattamente come tutti gli altri. Chiunque in un certo momento della vita soffre quello che ho sofferto io, a un livello magari diverso, più profondo o più superficiale. Ma tutti comprendiamo questo sentimento. È parte di noi, appartiene alla nostra vita».
Ma non c’è solo dolore c’è anche la voglia di resistere e di riscattarsi. «La musica dei Baroness ha sempre tentato di concentrarsi su manie, ossessioni e comportamenti compulsivi – spiega Baizley -. Con questo disco abbiamo cercato di dare tutto quello che potevamo. È un lavoro essenziale in cui ogni cosa in più sarebbe sembrata estranea e ogni cosa in meno avrebbe impedito di raggiungere il punto, non avrebbe conficcato il chiodo in profondità come volevamo. Penso sia necessario sempre raggiungere qualcosa sotto la superficie, ogni stile di musica è solo un’apparenza, è la sostanza quella a cui la gente reagisce e arrivare a questa sostanza è parte di un processo creativo fatto di molti strati. Bisogna sempre apprendere cose nuove, e questo comporta anche fare molti errori».
Purple, che ha raggiunto la prima posizione delle classifiche indie americane, è uscito come disco autoprodotto, edito dall’etichetta Abraxan Hymns. I Baroness hanno rifiutato di pubblicarlo per una major. «Non abbiamo mai voluto essere delle superstar. Non abbiamo mai voluto essere enormi, fare i milioni. Tra di noi c’è l’assoluta e reciproca fiducia che ci consente di fare certe scelte. Curare tutti gli aspetti della pubblicazione è un lavoro estenuante, ma a me non spaventa e ci permette di creare qualcosa di completamente nostro. Non rispondiamo a nessuno. E se sbagliamo non possiamo puntare il dito contro nessuno. Quello che facciamo e come lo facciamo ci permette di godere del successo in una maniera diversa, genuina. Per me questo non è un lavoro. Se avessi fatto scelte diverse probabilmente avrei una casa più bella, avremmo avuto delle hit. Ma sono quindici anni che suono e amo quello che faccio. Siamo andati sempre avanti. Sarei terrorizzato dalla prospettiva di avere un solo grande successo e poi basta. A casa ho una moglie e una figlia di 6 anni. Io sono lontano, ma voglio che mia figlia capisca che puoi vivere facendo delle scelte coerenti, seguendo le tue passioni».
Baizley non vede il suo ruolo di musicista diverso da quello di artista grafico tanto che ha definito i Baroness un «progetto artistico». Oggi firma anche diverse copertine di altri artisti, metal e non. Il suo immaginario è ricco di simboli: «Cerco nei miei disegni di catturare a un livello più profondo l’attenzione. Parto da un’idea che sviluppo su uno schizzo e poi creo utilizzando acquerelli e colori che io stesso assemblo». È un lavoro certosino che non consente errori: «Ogni pennellata è indelebile» sottolinea il cantante.
È difficile associare l’immagine dell’amanuense con quella feroce del frontman che assume sul palco. Ma è il frutto di una personalità eclettica e di un artista orgoglioso di aver vinto le sue sfide. Si dice anche che ascolti un album nuovo ogni giorno per non perdere mai la possibilità di avere nuove idee musicali. «Lo faccio – sorride John – non potrei fare altrimenti. Come si può pensare di crescere senza ascoltare nuova musica, nuovi artisti? C’è chi si concentra solo su quello che fa. Ho sentito che per esempio Angus Young degli AC/DC ha smesso di ascoltare musica. Ma io non sono così».
All’improvviso il buio. Ecco il mondo nuovo dei Baroness
Incontri/Il leader della band statunitense John Dyer Baizley. La band torna dopo il pauroso incidente del 2012. «Dolore, angoscia, sofferenza, tensioni, quello che abbiamo provato accomuna molte persone»

Incontri/Il leader della band statunitense John Dyer Baizley. La band torna dopo il pauroso incidente del 2012. «Dolore, angoscia, sofferenza, tensioni, quello che abbiamo provato accomuna molte persone»
Pubblicato 7 anni faEdizione del 2 aprile 2016
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