Alias Domenica

Allestimenti celebri di un’invenzione tecnica tra estetica e politica

Fotografia Nel 1839 Bayard espone per primo delle «calotipie» e subito scatta la querelle critica: la fotografia è un’arte indipendente? Le tappe-chiave di un tragitto

Pubblicato più di 9 anni faEdizione del 24 maggio 2015

Alla fine l’effimero non è più tale, almeno stando alle pubblicazioni dedicate alla storia delle mostre temporanee… Campo d’indagine apparentemente impertinente anche se contiguo alla storia dell’arte, quello delle esposizioni si è dimostrato un terreno inaspettatamente fertile di ricerca e riflessione sulle modalità di percezione del passato e della ricezione del contemporaneo.

Un nuovo tassello si aggiunge a questa vasta rilettura critica grazie alle edizioni Contrasto, che hanno pubblicato recentemente un volume a più voci orchestrato da Alessandra Mauro, storica figura di curatrice e studiosa di fotografia, direttrice dell’Agenzia Contrasto e responsabile della Fondazione Forma di Milano: Photoshow Le mostre che hanno segnato la storia della fotografia (pp. 270, euro 45,00).

I contributi, a cura di vari studiosi e preceduti da un’intervista della Mauro a Quentin Bajac – curatore al MoMA di New York impegnato a «tirar fuori il visitatore dal suo torpore» –, si articolano attorno a occasioni specifiche o a serie definite da un elemento comune, scaglionandosi cronologicamente lungo un asse che dalla nascita della tecnica di riproduzione del mondo attraverso la luce, arriva ai nostri giorni.

La carovana dei saggi muove dal 1839, quando il match tra Daguerre e Talbot, giocato da una sponda all’altra della Manica, vede andare in rete Bayard, ultimo sceso in campo e primo a esporre un pannello di disegni fotogenici (cioè le calotipie di Talbot rivedute) che viene guardato con curiosità dal pubblico, aizzato dagli articoli giornalistici sulla polemica tra francesi e inglesi per la primogenitura. Passata la meraviglia per la nuova invenzione, sùbito a chiedersi se la fotografia è un’arte: i responsabili del Victoria & Albert Museum non hanno dubbi: «è un’arte indipendente», per cui viene creato un dipartimento apposito e si cominciano a smerciare immagini delle opere raccolte nelle collezioni.

Ma sull’effettiva appartenenza del neonato medium i critici continuano a interrogarsi, la fotografia è tecnica o arte?

Il dibattito scorrerà più o meno esplicitamente per molti decenni e, anche grazie a questo volume, ne possiamo seguire i passi cruciali fino alla rimessa discussione del suo statuto da un punto di vista politico, si guardi il penultimo saggio, dedicato a «Here is New York: a democracy of photographs», che scava attorno alle radici creative mettendole a nudo in una verifica della sua ‘autonomia’ nella stretta di tragedie collettive come l’11 settembre. Comunque, nel 1891, a Vienna, una grande mostra fu riservata ai soli amatori, gli unici in considerati in grado di dedicarsi alla ‘fotografia artistica’, cioè intenzionalmente pittorica, attenta all’impaginazione e alle atmosfere invece che al gretto realismo di commercianti e scienziati.

Intanto gli americani si erano impadroniti della fotografia creativa con una qualità tecnica e mitopoietica inaspettata, e il volume sceglie doverosamente a testimone l’attività della Galleria 291, di cui si occupa la stessa Mauro. Nata nel 1905 col pedigree della più importante rivista di fotografia che vi sia mai stata, «Camera Work», la ‘291’ fu fondata da Alfred Stieglitz, cui si unì Edward Steichen, che vi espose non solo foto ma anche l’avanguardia europea e l’arte africana. L’influenza delle mostre organizzate in questo piccolo spazio fu immensa, ma non minore gittata ebbe il come queste mostre erano realizzate: pareti dai colori neutri, opere incorniciate come quadri, illuminazione perfetta, tutto concorreva a creare un ambiente raccolto e sofisticato, adatto tanto ai disegni di Picasso che alle foto di Paul Strand, in un clima elitario reso popolare dalle fotografie degli allestimenti, che ne resero leggendaria l’atmosfera raccolta ed elegantemente sofisticata.

Il pendolo oscilla di nuovo verso l’Europa con Film un Foto, tenutasi a Stoccarda nel 1929, un racconto ininterrotto che fluisce accostando immagini di tutti i generi e facendo così saltare le distinzioni tra foto d’arte, tecnica, di reportage. FiFo è il trionfo della Neue Wege, teorizzata da Moholy-Nagy, e al tempo stesso la prova da stress di una disciplina dalla travolgente vitalità, non a caso la sala di riferimento per noi resta ancora quella allestita da El Lissitsky, la cui capacità comunicativa si concretizza nell’articolazione spaziale, nel montaggio antinarrativo delle fotografie e nelle macchine da ripresa di Ejzenštejn, usate come ‘oggetti a reazione poetica’.

Al MoMA il 13 marzo 1937 si inaugura Photography 1839-1937, era la prima volta che un museo si dedicava a raccontare i quasi cento anni di attività fotografica e l’immagine iniziale, che accostava un dagherrotipista a un aitante giovanotto la cui faccia era nascosta, quasi sostituita, dalla macchina fotografica, diceva tutto: «è la democrazia dell’immagine, bellezza!».

Nel saggio in catalogo assumono però giustamente maggior portata The Road to Victory, 1942, nata per rafforzare la coscienza del valore dell’intervento americano nella Seconda guerra mondiale, e, nel 1955, The family of Man, che con centinaia di foto provenienti da professionisti e dilettanti di innumerevoli nazioni illustrava la sostanziale fratellanza di tutti i popoli della terra. Entrambe create da Steichen e visitate (specialmente la seconda) da milioni di persone, le due mostre tendevano a creare un percorso psicagogico al di là del valore intrinseco delle immagini esposte: accostamenti inaspettati, improvvisi salti di scala, gigantografie si succedevano in un montaggio ispirato alle avanguardie e alle strategie commerciali, in cui le fotografie perdevano la propria individualità per trasformarsi in dispositivo suscitatore di buoni sentimenti basic.

Nel 1967 John Szarkowsky, esordisce al MoMA con New Documents: Diane Arbus, Garry Winogrand, Lee Friedlander, un brutale risveglio dopo l’ubriacatura buonista di Family of Man, sulle pareti bianche si sgranavano le immagini di una nazione dove la quotidianità nasconde angoli oscuri, esistenze svuotate, angosce collettive riprodotte in un bianco e nero che non lascia scampo.

La forza di queste immagini travolgerà in parte anche la tradizione europea e il passaggio dalla straight photography alla street photography non sarà indolore, col suo strascico di ambiguità che nemmeno il recupero autoriale e curatoriale degli ultimi decenni riuscirà a dissolvere: come dimostrano i contributi dedicati a mostre che pur non avendo la perspicuità di quelle realizzate fino alla prima metà del secolo, non per questo sono state meno abili nel sondare gli innumerevoli ruoli svolti sulla scena contemporanea, artistica e anche mediatica, da questo proteiforme prodigio della tecnica. Un prodigio di incalcolabile potenzialità creatrice eppure vittima di una certa vertigine prosopografica – quella su cui lavorava già negli anni settanta Franco Vaccari.

Dal lavoro di Dolbert Delpire al Centre National de la Photographie a Parigi, alla scuola di Bernd & Hilla Becher a Düsseldorf, da cui escono i ‘concettuali’ Andreas Gursky, Candida Höfer, Wolfgang Tillmans, fino a ‘monumenti’ come Salgado, la fotografia mira a mantenere intatta la sua forza poetica e conoscitiva, unica alternativa all’infinito disciogliersi del mondo nell’automatismo ipnotico dello scatto fotografico.

Qui va forse ravvisato l’avverarsi paradossale dell’auspicio di Lenin all’indomani della rivoluzione, che tutti dovessero possedere un apparecchio fotografico per poter diventare artisti.

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