Negli Stati Uniti degli anni Cinquanta, molto di ciò che disse Allen Ginsberg nelle sue interviste era ancora pressoché impronunciabile. Da queste occorrenze, che considerava parte integrante della propria arte, prendeva l’occasione per parlare «in modo veritiero, pieno, cercando di rispondere davvero alla domanda, senza cercare di eluderla», usando le «frasi nella lingua parlata in modo che abbiano un tono letterario e la chiarezza della buona prosa». Ora, un volume edito dal Saggiatore seleziona trenta di queste interviste, da un corpus di 352 pubblicate in vita, che fatta eccezione per gli incontri con Fernanda Pivano e con Paul Carroll (entrambi del 1968) e con Ekbert Faas (1974) non erano state mai tradotte, e che vanno a formare una raccolta preziosa di conversazioni: Senza filtri Interviste 1958-1996 (traduzione di Sara Sullam, postfazione di David Carter, pp. 664, € 42,00).

In ordine cronologico
Presentate in ordine cronologico, partono da quella del 15 ottobre 1958 (Village Voice, New York), condotta da Marc D. Schleifer e registrata a tre anni di distanza dalla lettura di «Urlo» a San Francisco, e a due anni dalla sua pubblicazione per la City Lights di Lawrence Ferlinghetti.

Il poeta americano si fa forte della sua «spontaneous mind», come recita il titolo originale del libro uscito nel 2001 negli Stati Uniti, per denudarsi, argomentare le sue personali verità, e rivivere i sogni della rivoluzione culturale di cui fu protagonista la Beat Generation. Per compilare il volume, David Carter ha stralciato passi ripetitivi o pleonastici, integrandoli con brani che solo Ginsberg poteva suggerirgli, ma che non avrebbe mai visto pubblicati: «il suo lavoro su quelle copie prova quanto seriamente considerasse le interviste: nessun errore era troppo piccolo da non essere corretto, perché Allen non solo ampliava le risposte o correggeva anche trascrizioni errate, ma correggeva l’ortografia e la punteggiatura, indicava dove voleva spezzare i versi, e forniva persino correzioni sui dati bibliografici». Senza filtri si conclude con l’intervista di Steve Silberman (16 dicembre 1996), rilasciata solo qualche mese prima della scomparsa del poeta (5 aprile del 1997).

Insieme alle biografie di Barry Miles (1990) e di Bill Morgan (2007), e alla fitta corrispondenza scambiata da Ginsberg con il suo editore, uscita nel 2015, queste testimonianze sono un intenso e stupefacente ingresso nella vita di un grande intellettuale: alla passione per William Blake, ad esempio, sono dedicate – nell’intervista con Tom Clark – diverse pagine che ricostruiscono una sorta di allucinazione uditiva scaturita dalla lettura del poeta romantico inglese: «qualcosa di indimenticabile perché era come se dio avesse voce umana, con tutta l’infinita tenerezza, antichità, e gravità mortale di un Creatore vivente che parla a suo figlio». Di Walt Whitman si dice che preparò la strada a qualcosa di opposto «al macho in stile Hemingway e al macho militare» favorendo lo sviluppo «di una tenerezza franca, emotiva, e il riconoscimento della tenerezza come base dell’emozione genitale o non-genitale».

Ma si legge anche il desiderio di conoscere e frequentare alcuni modelli d’oltreoceano come Céline e Genet, nonché il racconto del sospirato arrivo a Venezia per (forse) conversare con Ezra Pound. Fra i viaggi di cui Ginsber riferisce, ci sono quelli a Cuba e in Cecoslovacchia – paesi da cui fu espulso per aver commentato, in un caso, la nuova dittatura coercitiva di Castro, e, nell’altro, dirottato l’attenzione sulla causa omosessuale sotto un regime oltranzista. E fra i suoi incontri, quelli con Vaclav Havel, Edward Weston, Amiri Baraka, Joan Baez, Clash, Paul McCartney, che si aggiungono agli amici di sempre, da Neal Cassady a William Burroughs, da Jack Kerouac a Gregory Corso, da Bob Dylan a Peter Orlovsky.

Curiosità irrefrenabile
Quanto alle immancabili pagine sulla sua fluviale passione erotica, la parabola della omosessualità parte dal temuto giudizio del padre fino alla esplicitazione, passando per curiosità irrefrenabili, performance in giro per il mondo, quel suo minuzioso annotare e documentare i vari passaggi della propria vita e della storia dei vari paesi visitati, dall’Inghilterra della Thatcher al Tibet di Trungpa, dal Giappone di Suzuki Roshi al Vietnam di Madame Nhu, dalla Corea di Kim Il Sung alla Georgia di Newt Gingrich.

Le interviste più belle rimangono quelle degli anni Novanta, con Thomas Gladysz (1991), Clint Frakes (1991) e Steve Silberman (1996), dove non solo Ginsberg segue il flusso impetuoso della sua loquacità ma asseconda la sua saggezza di uomo meditativo, e memore del suggerimento dell’amico Jack Kerouac: «il primo pensiero è il migliore, o il primo sguardo è il migliore, una consapevolezza non premeditata. È come annotar.e brevi lampi nel proprio taccuino, piccoli lampi di pensiero».