Cultura

Alle origini dello Stato, nella trasformazione di violenza forza e potere

Alle origini dello Stato, nella trasformazione di violenza forza e potereUna installazione di Antony Gormley

SCAFFALE «Fare la guerra con altri mezzi», l’ultimo volume di Alfio Mastropaolo pubblicato per il Mulino

Pubblicato circa 2 ore faEdizione del 5 novembre 2024

Quello dell’origine, delle trasformazioni e del destino dello Stato è da sempre uno dei problemi politici e teorici più discussi della modernità. Negli ultimi decenni i temi attorno a cui le analisi si sono concentrate sono la crisi della democrazia rappresentativa e il ruolo dello stato nella (fu?) globalizzazione. Su quest’ultimo aspetto, ci si è divisi tra chi ha considerato inevitabile una progressiva irrilevanza dello Stato nazionale, e chi ne sosteneva invece l’indispensabilità per gli stessi meccanismi riproduttivi del capitale e dell’ordine sociale.

ALFIO MASTROPAOLO ha da poco pubblicato su queste questioni un lavoro originale (Fare la guerra con altri mezzi, il Mulino, pp. 336, euro 34). La sua originalità deriva dall’intreccio tra sociologia storica e scienza politica. Alla prospettiva storica è dedicata la parte iniziale del libro. Sulla nascita dello stato moderno sono sorte mitologie e rappresentazioni, alimentate in primo luogo dallo stato stesso, tendenti a descriverlo come progetto razionale sviluppato dalla società sulla base di principi di valore universale. La parola che Mastropaolo mette invece al centro della formazione delle compagini statali è racket. La nascita dello stato moderno è dovuta a fenomeni di racket, di appropriazione violenta del monopolio della forza da parte di gruppi che utilizzano il nuovo spazio politico per stabilizzare o estendere il proprio dominio. Una scelta analitica realista, che Mastropaolo compie anche riferendosi ad autori classici come Elias, Tilly e Bourdieu. Violenza, potere e forza sono elementi costitutivi dello stato dunque. Ma non sono gli unici. Il libro ripercorre dalle origini la dialettica e la contraddittorietà dello stato moderno.

DA SUBITO, i protagonisti del racket, i monarchi e le loro dinastie in primo luogo, devono costruire reti o coalizioni con altri gruppi sociali e concedere qualcosa ai dominati. Per essere egemone e opporsi ai propri avversari, il dominante deve avere un certo consenso, problema che risulterà crescente con il passare dei secoli, fino agli Stati costituzionali e democratici. È quella che per Gramsci (non citato nel libro, ci sarebbe stato bene), è la dialettica fondamentale dello stato moderno, quella tra il suo mito ideologico e la sua realtà: lo Stato è dominio, violenza, repressione, doppio stato, governo invisibile, appropriazione privata di beni pubblici, ma è anche un’idea di nazione originariamente progressista e rivolta al futuro, resta la più grande cerchia di riconoscimento sociale e intersoggettiva moderna, è anche (parzialmente) sfera pubblica, pluralismo e, grazie all’intreccio tra necessità storiche oggettive e grandi mobilitazioni popolari, strumento e luogo dell’inclusione dei cittadini nel perimetro della politica. Questo secondo polo della statualità, il polo democratico-sociale, è da sempre il più fragile. Mastropaolo analizza in profondità i noti motivi di crisi della democrazia contemporanea, in cui le ambivalenze costitutive dello stato moderno ritornano, spesso approfondite e radicalizzate. Rappresentanza, partiti, pluralismo, relativa autonomia della politica dalle forze di mercato: tutto ciò che si definisce «democrazia rappresentativa» è oggi in gioco nelle fondamenta. Democrazia (occidentale) che ingigantisce il mito di sé utilizzandolo come base di legittimazione di rinnovati progetti di dominio (o di resistenza al declino), come osserviamo ogni giorno. Mentre la democrazia reale diventa una forma di neo-oligarchismo che ha eroso i meccanismi di rappresentanza per i ceti popolari e i ceti medi, lasciandone il quasi-monopolio alle forze economiche dominanti. Capita che, come recentemente in Francia, nemmeno il simulacro del voto popolare abbia più effettività.

NELLO STESSO TEMPO gli Stati sono tutt’altro che irrilevanti. Fanno la guerra, utilizzano le leggi e le risorse pubbliche per sostenere gli interessi delle forze economiche dominanti, governano i subordinati. La statualità cambia dimensione, può esprimere una propria sovranità soprattutto quando acquisisce dimensioni quasi-continentali (Usa, Cina) o ridisloca la sua estensione a livello sovranazionale, ma non scompare. Anche nella «vecchia» dimensione dello stato nazionale, alcuni governi nelle diverse aree del globo dimostrano che non è impossibile esercitare una sovranità politica che non sia la mera traduzione degli interessi imprenditoriali e finanziari. Considerando anche i modelli di statualità che si affermano al di fuori dell’occidente, a volte dispiegando forme straordinarie di efficacia nella realizzazione delle politiche (Cina), si può pensare che anche la statualità, come altre dimensione del sociale contemporaneo, sia attualmente in una fase di transizione. Non possiamo sapere quale modello dominante ne scaturirà. Mastropaolo si chiede cosa impedisca a popoli sempre più esclusi dalla rappresentanza di opporsi attivamente a questa esclusione. I nodi fondamentali della politica nazionale e internazionale stanno arrivando a un punto di irreversibilità: concentrazione della ricchezza, guerra, crisi ambientale. Tutti gli assetti politici e sociali, quindi anche il rapporto tra governanti e governati, ne usciranno trasformati, e la direzione in cui questo avverrà non è scritta.

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