Visioni

Alle feste con l’étoile del sottoscala

Alle feste con l’étoile del sottoscala

Ballare Secondo appuntamento con i «Racconti di Agosto», la coppia inseparabile delle danze. La nascita di una complicità immediata, sulle note di «I Will Survive» di Gloria Gaynor

Pubblicato più di 4 anni faEdizione del 8 agosto 2020

Sarà che io vengo da Parma e lei da Cesena, sarà che abbiamo la stessa età e che tutte e due siamo scappate dalla provincia per andare verso metropoli più o meno lontane, fatto sta che se devo indicare il partner perfetto di balli scatenati nelle feste private non mi viene in mente un maschio, ma lei, la mitica Antonia. Ci siamo conosciute a Milano negli anni Novanta, periodo in cui chi aveva case grandi organizzava volentieri feste con danze. In comune io e l’Antonia avevamo un desiderio d’infanzia che per me era rimasto tale e per lei un percorso intrapreso e poi abbandonato: danzare. All’inizio della nostra conoscenza mi raccontò che da bambina era così fissata con battement, attitudes e piruoettes che in casa non faceva altro che provare, tant’è che suo nonno cominciò a chiamarla La ballerina del sottoscala. Lei ci rideva ancora su. In Emilia Romagna il sarcasmo lo somministrano a dosi massicce anche ai bambini, così non si montano troppo la testa e non ti ritrovi in famiglia un borioso, roba che lì non sopporta nessuno.

NON RICORDO a casa di chi scoprimmo di avere in comune la passione per il ballo, però ricordo che la nostra complicità fu immediata. A parte un suo spasimante che come noi non riusciva a star fermo quando partiva la musica, ben presto io e l’Antonia diventammo le due donne da invitare se ci si voleva divertire ballando. L’unico problema è che io e lei ci intendevamo così bene che nel giro di qualche pezzo nessuno maschio osava più ballare con noi. Semplicemente si scostavano e cercavano di imitarci o si mettevano di lato a guardarci. Non era esattamente la tecnica di cuccaggio migliore, la nostra, ma ci divertivamo così tanto che trovare un fidanzato diventava l’ultimo, o penultimo, dei pensieri. Con il senno di poi, mi rendo conto che la nostra è stata un’inconscia pratica di selezione del maschio perché una donna che si scatena nel ballo svela una tale consapevolezza della potenza del proprio corpo che a molti fa ancora paura. Ciò non ci ha impedito di incrociare degli indecisi, dei bugiardi o dei farfalloni, ma almeno ci siamo risparmiate i narcisisti, i complessati e i mammoni, ed è già tanto.

Intendiamoci, non ballavamo con tecniche, passi o figure sofisticate, semplicemente seguivamo la musica e muovevamo quel che il ritmo ci diceva di muovere. Piedi, gambe, caviglie, cosce, anche, vita, braccia, spalle, schiena, mani, polsi, collo, testa, e di su, e di lato, e di giù, e salti, e avanti, e indietro, e tutto insieme, e a metà, e solo un pezzo, sincopato, velocissimo, rallentato, tremolato, e pause, e scatti. Eravamo due improvvisatrici allo stato brado, un po’ selvagge e selvatiche. Per dire, la nostra canzone culto è I Will Survive di Gloria Gaynor.

POI ARRIVÒ quella festa in maschera, per via del carnevale. Io mi vestii da uomo, Antonia forse da Cleopatra. Quando la musica iniziò comparve uno che ballava benissimo. Non lo avevamo mai visto prima ed era vestito da donna con le tipiche sovrastrutture che adottano i maschi quando indossano abiti femminili, cioè camp campissimo. Cuissard bianchi con la zeppa, minigonna a filo gluteo, top, parruccone biondo tutto ricci, ciglia finte, brillantini ovunque, rossettone. Per la prima volta tradii l’Antonia e ballai tutta la sera, io donna vestita da uomo, con lui uomo vestito da donna. Quel casino era intrigante. Ma ci fu un ma. Verso le due del mattino si levò i tacchi e la parrucca. Era alto meno di me e con pochi capelli. L’incanto fece puff. Tolti il ballo e il travestimento tutto era finito, l’interesse sparito. Ci rimasi male, lui anche, ma non potevo farci nulla. Se ti metti una maschera, quando la togli devi svelare o una maschera ancora più spettacolare o una verità all’altezza del trucco perché dai tacchi bisogna saper scendere con un colpo di teatro. Quel lui/lei aveva il senso del ballo, ma non quello della scena e in una festa di carnevale è un errore imperdonabile.

TORNAI a far coppia con la flessuosa Antonia che nel frattempo si era fidanzata con lo spasimante ballerino. A quel punto ballavamo in tre, oppure lui ci faceva roteare a turno quando partiva un rock and roll, sua grande passione e abilità. Ogni tanto qualcuno cercava di entrare nel trio, ma dopo alcuni passi si scansava da solo perché noi, non sentendolo in sintonia, lo ignoravamo. Il ballo libero può essere molto inclusivo, ma altrettanto esclusivo e quindi impietoso. Insomma, eravamo parecchio egoisti e non ci importava di esserlo. Ecchecaspita, quando balli non ti puoi preoccupare di fare il samaritano. Io poi non ho mai avuto la vocazione della crocerossina nella vita quotidiana, figurarsi nella dimensione danzante. Non mi sarei mai aspettata, di conseguenza, la richiesta di un amico carissimo che veniva a tutte le feste e che non aveva mai osato muovere un solo piede. Credevo non gli piacesse ballare, e invece…

Invece un giorno mi telefonò e mi invitò a pranzo dicendomi con aria carbonara che mi doveva parlare a quattr’occhi. Mi aspettavo una confidenza di mal d’amore. Mi spiazzò dicendo: «Vorrei che mi dessi lezioni di ballo». Lo guardai sbalordita. «Io non so insegnare. Io ballo e basta. Mi viene spontaneo». «Eppure – aggiunse lui – vorrei che ci provassi». «Ma basta ascoltare la musica». «Quello che per te è così spontaneo, per me è un muro. Aiutami». Cominciammo nel suo soggiorno dalle basi, ovvero il ritmo. «Ascolta, rilassati e comincia a muoverti seguendolo» gli dicevo. Al massimo faceva due piccole flessioni sulle ginocchia. «Fai come me», aggiungevo cercando di fare i movimenti più semplici possibili. Migliorava, ma io mi sentivo come legata a un sasso. «Dammi le mani e seguimi». Sembrava uno stendibiancheria agitato dal vento. Lui progrediva con una lentezza esasperante, io mi sgonfiavo. Dopo una decina di lezioni trovò il coraggio di buttarsi nella mischia alla prima festa disponibile. Suscitò scalpore e complimenti non per come ballava, ma perché lo faceva. Non svelammo a nessuno il nostro piccolo segreto e dopo quell’exploit, che servì a farlo notare alla donna che gli interessava, tornò a esibirsi come spettatore. Io non ho mai più dato lezioni a nessuno. Non mi interessa.

L’ESIBIZIONISTA che è in me, perché per ballare un po’ esibizionisti bisogna essere, ha avuto il suo momento di gloria a una festa organizzata da un amico molto stravagante che viveva in una villa un po’ fatiscente e non sua nella campagna pavese. Aveva illuminato con candelabri il salone centrale affrescato e con soffitti alti dieci metri, chiamato un dj, approntato un buffet di bevande, disseminato ogni angolo con divanetti di velluto e trasmesso una parola d’ordine: abito da sera. Una festa così capita una volta ogni tot anni. Io e l’Antonia ci guardammo e preparammo la sorpresa. Cappa di velluto nero fino ai piedi e, sotto, solo calze, body e tacchi neri. Faceva un po’ coniglietta senza il coniglio, ma ce lo potevamo permettere. Quando il dj fece partire You Can Leave Your Hat On di Joe Cocker, entrammo in pista coperte di tutto punto, cominciammo a fare qualche passo e sul più bello, zacchete, il mantello cadde giù dando il via alla citazione di uno dei balli più ammiccanti della storia del cinema. Kim Basinger perdonaci.

QUALCHE GIORNO dopo un amico che era venuto da lontano mi disse che l’amico che lo aveva accompagnato aveva girato tutto con una piccola telecamera e continuava a guardare il video chiuso nel suo bagno, per non farsi scoprire dalla compagna. Benedico la sorte che all’epoca non aveva ancora inventato smartphone e social network. Io e l’Antonia amavamo stupire, ma cerchie ristrette di persone perché certe cose le puoi regalare soltanto agli amici, non a masse di sconosciuti e a noi interessava solo giocare. Del video non abbiamo saputo più nulla perché l’autore si schiantò poco tempo dopo durante un volo in elicottero. Piccolo post scriptum. A quella festa venne un mio mezzo fidanzato, uno di quelli sfuggenti che un giorno ci sono e il giorno dopo spariscono. Sparì del tutto, dopo una scena di gelosia con il silenziatore, nel senso che disse: «Non mi avevi detto che c’era la musica. Credevo si mangiasse soltanto». Certe volte ballare chiarisce un sacco le idee, e pure qualche relazione.

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