Alla riscoperta dei «palari» di Tana Beru
Reportage Grazie a un finanziamento internazionale, è stata ricostruita una barca tradizionale dell’isola Sulawesi. Siamo andati a vederla
Reportage Grazie a un finanziamento internazionale, è stata ricostruita una barca tradizionale dell’isola Sulawesi. Siamo andati a vederla
Nel 1955 il nobile cremasco Leonardo Bonzi, un viaggiatore e trasvolatore che non aveva problemi di salvadanaio, si recò in Indonesia con l’idea di fare un film sul Borneo (Kalimantan) e le isole della Sonda. Andò naturalmente anche a Bali, l’isola degli Dei diventata famosa in Occidente grazie a una colonia di artisti tedeschi e olandesi che ne aveano scoperto le multiformi attività artistiche: danza e musica soprattutto ma anche pittura e grande capacità dell’intaglio di legni pregiati. «Continente perduto», come Bonzi chiamò il documentario realizzato con Enrico Gras e Giorgio Moser per la Rai (ancora disponibile nelle teche della Radiotelevisione italiana), fece dell’Indonesia una meta, ancorché per pochi, che già disegnava il futuro turistico che oggi ne fa uno degli hub – come si dice – della vacanza internazionale. Sembra che per realizzare il suo film in un arcipelago di 17 mila isole avesse bisogno di una barca costruita dei maestri d’ascia bughinesi di Makassar. Fu dunque anche lui, che ripescava una tradizione storica olandese, a fare di questo popolo – i Bugis – gli eroi delle epopee marittime indonesiane. E di una delle loro grandi navi, la protagonista del Continente perduto.
I BUGIS ABITANO LE SULAWESI LA CUI CAPITALE, oggi come allora, è Makassar, anche nota come Ujung Pandang e resa famosa da Salgari nei suoi libri sulla pirateria malese. Ma vuoi per tradizione, vuoi perché spesso un nome può occultare un’origine, andò immeritatamente solo ai Bugis l’onore di aver creato flottiglie di praho grandi e piccoli: navigli da commercio, pesca, prateria o diporto. Ben più antica della pratica bughinese era invece quella coltivata da un’altra popolazione che viveva e vive a circa duecento chilometri a Est di Makassar. Il posto si chiama Tana Beru, un villaggio nella reggenza di Bulukumba, che non è difficile da raggiungere in macchina se il monsone non ha reso le strade dei corridoi allagati che costeggiano il mare. È ancora oggi, il principale centro di costruzione navale di Sulawesi e, secondo qualcuno, «il più grande grappolo di cantieri navali in legno del mondo».
FARE UN VIAGGIO A TANA BERU è così un tuffo non solo nel passato ma soprattutto in un presente vivace tra un via vai di tronchi, tavole, cime, attrezzi tra i più disparati, testimoni di una tecnica antica diverse migliaia di anni ma che qui si è tramandata praticamente intatta. O quasi.
A TANA BERU INCONTRIAMO Horst Liebner, un antropologo tedesco che ci vive e che si è trasformato in una sorta di ingegnere navale o, se vogliamo, in uno studioso interdisciplinare a 360 gradi: un po’ linguista, un po’ storico, un po’ matematico, un po’ marinaio. Quando siamo arrivati a Tana Beru, nel febbraio scorso, Horst stava per varare Perla Anugerah Ilahi, modello di un antico naviglio – il palari – armato con la tecnica pinisi. È un progetto che si deve a un consorzio di finanziatori e patrocinatori, tra cui l’Orientale di Napoli e il British Museum. La barca in mare l’abbiamo vista mentre maestri d’ascia e maestranze davano gli ultimi ritocchi ma Horst ci ha promesso che, una volta salpata, ci si potrà tornare sopra per vedere come prende il mare un legno costruito con tecniche che hanno origini antichissime e prettamente orientali ma che furono ricondotte al nostro modo di costruire le barche. Come se la tecnologia dipendesse solo dall’Occidente, padre padrone anche delle scienze nautiche. Non è così.
OGGI MOLTE COSE SONO NATURALMENTE cambiate. Non nella sostanza di come si costruisce una barca, ma negli strumenti (trapani o pialle elettriche) che permettono di lavorare con meno fatica. Ma i chiodi che fissano il fasciame sono di legno e, ancora oggi, le tavole vengono modellate col fuoco, con la differenza che lo si accende con un Bic a gas. A lavorare ci sono centinaia di persone e decine di cantieri pur se, dice Horst «il visitatore non troverà molte navi costruite esattamente in conformità alle tecniche di un tempo perché, dalla fine degli anni Settanta, le barche sono state progressivamente pensate per diventare a motore. Mentre anche la più grande di queste navi è ancora costruita a partire dalle assi, i cambiamenti associati al design generale hanno spinto la maggior parte dei maestri d’ascia ad abbandonare i rigidi schemi precedenti, interrompendo così molte delle sofisticate procedure che mantengono l’integrità di uno scafo». Horst però le ha recuperate per lavorare al suo modello, ricostruendo la sapienza tramandata dai maestri d’ascia. Ne è un esempio un anziano gentiluomo dai capelli candidi che ci mostra il metro attraverso il quale si stabiliscono i punti di assemblaggio del fasciame: è una canna di bambù con delle incisioni che segnano esattamente il punto dove deve correre o interrompere la tavola. Non c’è una mappa con numeri, calcoli, angolazioni (che Horst ha invece ricostruito al computer) ma solo una tradizione orale il cui mantra pratico è un’asticella di bambù segnata in punti diversi.
NEL 2017 IL COMITATO INTERGOVERNATIVO per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale dell’Unesco ha inscritto «Pinisi, Art of Boatbuilding in South Sulawesi» come parte del patrimonio culturale immateriale dell’umanità la cui base è una tradizione della cantieristica e della navigazione con un sistema di conoscenza che da almeno 5mila anni ha permesso alle popolazioni del Sudest insulare dell’Asia Pacifico lo sviluppo di hardware e software (diremmo oggi) necessari per il mare, i viaggi, il commercio e la pesca. Ma cosa rappresenta, dunque, il pinisi? «Per i marinai e i maestri d’ascia di Sulawesi meridionale – dice ancora la nostra guida – non è altro che la designazione di un particolare modo di armare alberi e vele e di configurare il lavoro delle cime utilizzate per reggerle e governarle. Una nave armata con la tecnica pinisi ha sette o otto vele su due alberi, disposti in modo simile a quello che nella terminologia velica internazionale si chiama schooner-ketch: goletta, perché tutte le sue vele sono di prua e di poppa, allineate lungo la linea centrale dello scafo su due alberi; ketch, perché l’albero di poppa della nave è un po’ più corto di quello di prua. Ma il termine pinisi non ha nulla a che fare con lo scafo di una nave che utilizza questo tipo di sartiame. Però – rivela Horst – le prime intermittenti descrizioni di imbarcazioni di Sulawesi con tali vele tendono a descriverle come la copia di una tecnologia occidentale mentre i dettagli stessi della disposizione del pinisi sono indubbiamente non occidentali. Qui, per esempio – aggiunge indicando le vele – le rande sono tirate come tende lungo i pennoni fissati agli alberi e non, come nella tipica goletta occidentale, sollevate. E i metodi di fissaggio delle vele non hanno eguali su nessuna nave occidentale».
HORST SPIEGA CHE I VARI PROGRESSI dell’arte velica locale non sono arrivati all’improvviso e che i modi di gestire vele e pennoni mantengono le denominazioni di antiche funzioni così che «nomi e attrezzature di una nave di questo tipo segnalano secoli di tradizione». In buona sostanza, il racconto occidentale ci ha fatto padroni, oltreché dell’Indonesia (dominata per tre secoli dai Paesi Bassi), anche delle tecniche navali locali, assimilate alle nostre. In sostanza avevano imparato da noi! La negazione che i popoli si possano sviluppare altrimenti senza le nostre imbeccate. La dimostrazione del contrario è tra l’altro un bassorilievo del Borobudur, tempio buddista indonesiano risalente all’800 dc, dove si vede un’imbarcazione che richiama le attuali anche se non si deve pensare alla tradizione (in mare o in terra) come una forma statica: «C’è sempre una componente di sviluppo – commenta Horst – e comandanti e maestri d’ascia erano desiderosi di introdurre ogni tipo di innovazione che rendesse il traffico marittimo più facile ed efficiente. Erano disposti a innovare. A lavorare seguendo le tradizioni ma non solo».
TECNICHE ANTICHE DUNQUE CHE QUALCHE esploratore d’eccezione aveva già descritto nel secolo XIX. Nientemeno che Alfred Wallace, l’autore di The Malay Archipelago e padre, con Darwin, dell’evoluzionismo: «Per realizzare ogni coppia di assi utilizzate nella costruzione delle barche più grandi si consuma un intero albero. Esso viene tagliato trasversalmente alla giusta lunghezza, e poi tagliato longitudinalmente in due parti uguali. Ciascuna di queste forma una tavola tagliata con l’ascia a uno spessore uniforme Lungo il centro di ogni asse lasciano una serie di pezzi sporgenti, alti tre o quattro pollici, più o meno alla stessa distanza di un piede… di grande importanza nella costruzione della nave…». Questi pezzi sporgenti sui centri delle tavole sono una componente essenziale del metodo costruttivo a laccio, ben attestato in ambito archeologico e inequivocabilmente associato alla tradizione antica del Sudest asiatico. Horst è in buona compagnia.
NATURALMENTE STILI E TECNICHE di navigazione occidentale hanno avuto la loro influenza sul modo di costruire un vascello (per non parlare dei motori) ma è indubbio che la tecnica pinisi (che letteralmente si riferisce al sartiame adattato a un praho) è autoctona, a partire da una tradizione di solcare il mare con le vele (o con i bilancieri, da cui i moderni catamarani) che si perde nella notte dei tempi.
«LO SCAFO «PINISI», SIA ESSO un palari, un salompong vecchio stile, o un lambo in stile occidentale, viene costruito – conclude Horst – secondo tradizioni millenarie che contravvengono ai concetti di costruzione navale occidentale: non è assemblato attorno a una struttura ricoperta di assi, ma costruito come un guscio di assi collegate tra loro con tasselli di legno inseriti nei loro bordi, nei quali cornici e altri rinforzi vengono montati solo quando lo scafo è quasi finito. La si potrebbe definire una nave ibrida».
HORST HA LAVORATO AL PROGETTO con tre studiosi: Ahmad Ginanjar Purnawibawa dell’Universitas Indonesia e le italiane Antonia Soriente e Chiara Zazzaro. Cominciarono dal padewakang, un tipo di nave a vela che, almeno dall’inizio del XVIII secolo, fu costruita principalmente nel Sud delle Sulawesi e che era utilizzata in tutto l’arcipelago malese per il commercio e la pesca. Nel 2019, l’Abu Hanifa Institute di Sydney ha commissionato la costruzione di una di queste imbarcazioni, Nur Al-Marege, per un film documentario in un cantiere navale a Tana Beru, nota per la sua tradizione storica di una vasta industria di barche in legno. Questa è stata l’occasione per il team di studiosi di analizzare fonti iconografiche e documenti storici relativi al padewakang e di documentare un processo contemporaneo di costruzione di barche in legno intervistando persone coinvolte in queste attività.
IL VARO DELLA PERLA, QUALCHE GIORNO DOPO la nostra partenza, non ha risolto tutti i problemi. Mantenere nave ed equipaggio ha un costo e Horst non vorrebbe che la barca diventasse solo un modellino su cui far girare qualche ricco turista benché sia un’attività prevista. «L’idea è quella di navigare con questa barca nelle isole indonesiane e non solo per farla vedere. Vorremmo che diventasse una sorta di nave-scuola non soltanto nel senso che la gente possa ammirarla ma che possa comprendere che esistono modelli sostenibili se basati su un intreccio tra memoria e attualità. Pensiamo ad attività che possano accrescere la consapevolezza sull’ecosistema. Ma tutto ciò richiede finanziamenti, progetti o qualche mecenate che creda nell’importanza di trasmettere un messaggio attraverso un viaggio tra isola e isola. A vela». E in effetti di questa coscienza c’è un gran bisogno. Sotto alle barche in costruzione a Tana Beru, il mare trasporta migliaia di bottiglie di plastica, polistirolo e altro materiale non biodegradabile che si accumula all’ombra dei praho in costruzione. Come un monito sotto a quelli che restano invece un esempio di trasmissione della sostenibilità.
(Ha collaborato Stefano Coccioli)
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