La recente cattura di Matteo Messina Denaro ha risollevato interrogativi che sembravano seppelliti, o quantomeno rimossi, rispetto al passaggio epocale che si verificò nel 1992, quando, tra Tangentopoli e le stragi di Capaci e via D’Amelio, la Repubblica conobbe la più grave crisi di legittimità mai registrata dalla sua fondazione. In particolare, la latitanza trentennale del boss ha ridato voce a chi sostiene l’esistenza di una camera di compensazione, dove i poteri legali e quelli illegali si troverebbero a costruire una trama di potere occulta. Una tesi molto popolare presso l’opinione pubblica italiana, per quanto intrisa di determinismo e carente di evidenze empiriche.
Eppure, tre decenni fa, tra Milano e Palermo, si sono verificati eventi tragici che, visto il loro esito, si fa fatica a leggere in maniera episodica e frammentata.

COSA È SUCCESSO DAVVERO nel 1992? Esistono i poteri occulti? Enzo Ciconte, nel suo ultimo lavoro, 1992. L’anno che cambiò l’Italia (Interlinea, pp. 160, euro 14), tanto snello di volume quanto denso di contenuti, senza accampare la pretesa di fornire risposte definitive esplora le domande in profondità.
Ai lettori viene restituito un quadro che, nella sua problematicità, probabilmente si avvicina alla risposta. Ciconte svolge la sua disamina tenendo Palermo e Milano in simultanea, e non disdegnando una puntata a Lamezia Terme, dove l’omicidio del sovrintendente Aversa apre un anno che si rivelerà traumatico per il Paese. Tra i due estremi dei confini nazionali, vanno in scena due diverse rappresentazioni del potere: a Milano, l’iniziale stasi seguita all’arresto di Mario Chiesa, direttore del Pio Albergo Trivulzio, cede presto il posto a un effetto domino incessante, con i pilastri della struttura di potere politico-imprenditoriale protagonisti di una caduta rovinosa, innescata dalle confessioni di Chiesa, presto seguito da altri imputati. A Palermo invece si manifesta un drammatico, costante rimescolamento di carte, dove i ruoli non sono sempre stabiliti in maniera lineare e gli attori coinvolti assumono decisioni spiazzanti, a volte difficili da decifrare.
Si dice per esempio che Andreotti fosse il braccio politico della mafia, eppure è sotto il suo governo che i mafiosi scarcerati per decorrenza dei termini tornano di nuovo in galera, che la Cassazione conferma le sentenze del maxi-processo, che Giovanni Falcone accetta di lavorare al ministero presieduto da Claudio Martelli, il cui partito, secondo le dichiarazioni dei pentiti, avrebbe beneficiato pochi anni prima dei voti mafiosi. Una scelta, quella compiuta dal magistrato palermitano, da lì a poco vittima del tritolo di Capaci, che lasciò perplessi alcuni colleghi e i militanti del fronte anti-mafia.
Allo stesso modo, la polemica tra il procuratore di Palermo, Pietro Giammanco, lo stesso Falcone e Borsellino, lascia perplessi gli addetti e i lavori e il pubblico, perché non sussistono elementi sufficienti a stigmatizzare il procuratore.

SI PUÒ DEDURRE che non esiste una trama organica di potere, quindi non si può parlare di manovratori occulti che si muovono all’unisono. Esistono valutazioni contingenti, da cui scaturiscono alleanze fluide, funzionali, che possono durare nel tempo, salvo sfaldarsi non appena il contesto in cui si formano muta e si presentano condizioni sfavorevoli al mantenimento dei vecchi equilibri.
Lo stesso Falcone, d’altro canto, affermava che, se esistesse il terzo livello, basterebbe James Bond a togliercelo. Un monito che in questi anni non è stato molto preso in considerazione. C’è sempre tempo per cominciare a farlo.