In una parola
Rubriche

Alla radice della violenza bellica

In una parola La rubrica settimanale a cura di Alberto Leiss
Pubblicato un giorno faEdizione del 29 ottobre 2024

I sondaggi raccontano maggioranze relative ampie nella popolazione di paesi come Italia, Francia e Germania, contrarie alla guerra, che preferirebbero la ricerca negoziata della pace al rischio di un’escalation fino all’uso di armi atomiche.

Questi orientamenti delle opinioni pubbliche stentano però a manifestarsi nel confronto politico e nelle iniziative per la pace: sabato scorso parecchie decine di migliaia di persone hanno manifestato in alcune importanti città italiane. Ma siamo ancora distanti da una mobilitazione realmente incisiva.

Lo sguardo forse andrebbe più profondamente rivolto, oltre la catena di censure sull’informazione che racconta le guerre, a chi si rifiuta di combattere. In Russia e anche in Ucraina. O nelle tante altre guerre nel mondo. Così come alle ragioni che spingono invece tutti gli altri a accettare il combattimento, la volontà di uccidere e il rischio di perdere la vita. Andrà visto che tanti lo fanno per nobili ragioni, così come per tentare di sopravvivere con una paga un po’ migliore. O per uscire da un carcere. E poi giocano istinti meno “razionali” e più radicati negli insondabili legami tra corpo e mente. Citerò ancora le riflessioni di James Hillman, psicanalista junghiano, sul “terribile amore per la guerra” (Adelphi, 2005).

Sabato non ero alle manifestazioni pacifiste, ma a discutere sul tema “Il maschio e la violenza” con Edoardo Albinati a Forlì, all’ultima giornata del “900fest” quest’anno dedicato ai “Femminismi”. Ci intervistava il giornalista Gian Paolo Castagnoli.

Ho detto qualcosa sulla mia antica e breve esperienza “estremistica” dopo il ’68, quando ho visto nei comportamenti di alcuni giovani compagni quel “terribile amore per la guerra”, per la violenza politica. Mi fa supporre un legame non secondario tra la differenza sessuale maschile e la violenza bellica, oltre alla violenza “domestica” (e il numero dei femminicidi e delle altre violenze quotidiane che esercitiamo sull’altro sesso non sono un’altra vasta guerra globale?).

Albinati ha ripreso alcuni temi del suo grande libro – “La scuola cattolica” (Rizzoli, 2017) – che ha analizzato la violenza maschile negli stupri del Circeo. Facendo un accostamento potente: quei delitti nel 1975, lo stesso anno dell’omicidio di Pier Paolo Pasolini. Una sorta di tragico annuncio di un decennio di intensa violenza politica, placata solo negli anni ’80. E poi ha ripreso una sua recente considerazione sugli stupri di guerra, come elemento primario, “quintessenziale” della violenza bellica (https://maschileplurale.it/lo-stupro-bellico/: un video e un testo all’interno del progetto di maschile plurale “Contrastare la violenza di genere trasformando la cultura che la produce”, sostenuto con i fondi 8 per mille dell’Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai). Sviluppando in modo più ravvicinato un’idea del femminismo americano degli anni ’70, che la violenza sulla donna fosse primaria e arcaica, precedente alle altre forme di violenza.

Non si tratta per gli uomini di battersi il petto, di espiare colpe storiche. Rifletterci sì. Oggi non mancano anche le donne che liberamente desiderano fare la guerra (una declinazione problematica della parità?). A maggior ragione allora cerchiamo se esiste in noi un desiderio di cambiare. Citerò ancora una citazione di Albinati: il passo di S. Agostino che rileva la “fallibilità” della sessualità maschile – al desiderio fisico non si comanda – voluta dal Dio che ci ha creato.

L’affermazione violenta della virilità non sarà anche il tentativo di negare questa sorta di possibile mancanza “naturale” ? Riconoscerla, accettarla: un primo passo verso una “comune umanità” più vivibile?

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