Scena dal film «La guerra del fuoco» di Jean Jacques Annaud, 1981
Cultura

Alla febbrile ricerca delle nostre origini

Dal film La guerra del fuoco di Jean Jacques Annaud

Intervista Un incontro con il paleoantropologo francese Jean-Jacques Hublin, premiato a Berna con il Balzan per le sue scoperte scientifiche, fra cui quella del più antico Homo sapiens in Africa

Pubblicato 12 mesi faEdizione del 26 novembre 2023

Jean-Jacques Hublin è un paleoantropologo francese. Dal Dipartimento di Evoluzione umana dell’Istituto Max Planck, che ha fondato a Lipsia nel 2004, scava intorno al bordo fluttuante che ci separa dal resto dei primati, inquadrandolo in una prospettiva che abbraccia sociologia, psicologia, tecnologie. E mai dimenticando che l’umanità prese già nel Paleolitico a esternalizzare parte delle sue funzioni biologiche alla cultura, prefigurando così il postumanesimo dalla preistoria.
Hublin visse in Algeria fino a otto anni. Sradicato dalla guerra, finì per trascorrere l’adolescenza in una banlieue parigina. Quindi, dopo che suo cugino lo ebbe portato al Museo di Storia naturale, elesse a suo rifugio quell’ossessione sugli albori di neandertal e sapiens che lo ha accompagnato il 17 novembre a Berna, dove ha ricevuto il Premio Balzan «per l’importanza delle sue scoperte sul campo, in particolare quella del più antico Homo sapiens in Africa».

Perché interessarsi tanto a chi ha dedicato l’intera carriera alla ricerca delle origini?

Ciascun umano diventa ansioso se guarda ai limiti della propria vita. Per questo ogni società ha un suo mito fondativo. Dovette pensarci anche Darwin, quando teorizzò l’evoluzionismo. Prima c’era la Genesi; poi l’antropologia e la preistoria fecero emergere una visione scientifica, che però riassorbì le funzioni sottratte a religioni e mitologie. Per la stessa ragione, le storie sulle origini interessano in positivo al grande pubblico e in negativo alle intolleranze religiose. E ancora, sempre per la stessa ragione, questa attrazione diventa un’arma a doppio taglio: la scienza ci guadagna – anche io, che così ottengo un premio – mentre corre il rischio di cadere nello storytelling.

Il paleoantropologo Jean-Jacques Hublin

Interpretare: è questo il problema?

Dietro i fatti, restano i buchi. E la tentazione è quella di riempirli con le storie. Per esempio nella grotta di Bacho Kiro, in Bulgaria, abbiamo scoperto che poco prima di 45mila anni fa un gruppo di umani ne rimpiazzò un altro, rispetto a sé quasi alieno. Abbiamo tuttavia la prova che i due gruppi si sono incrociati. Ma una prova limitata: nei geni europei si conserva il 2% di quelli neandertaliani; in quelli dei tre sapiens di Bacho Kiro, quattro o cinque generazioni dopo l’ibridazione locale, certamente seguita a una precedente nel Vicino Oriente, il 3 o il 4 %. Ben poco.

Questi sono i fatti. Restano le interpretazioni. È possibile che si siano verificati scambi di partner? Onestamente è anche possibile immaginare che i sapiens abbiano col tempo ucciso tutti i neandertal e che i genomi tracciati conservino solo l’evidenza di qualche sparuto incrocio.

Analizzare gli storytelling ci aiuta almeno a far luce sulla contemporaneità.

Con il positivismo, infatti, la preistoria era un inferno che la civilizzazione doveva redimere attraverso il progresso. Da adolescente lessi La guerre du feu, un romanzo pubblicato nel 1911 in Belgio, da cui Jean-Jacques Annaud avrebbe tratto un film. Il mondo che veniva presentato era orribile: gli uomini lottavano continuamente, contro chiunque. In seguito alla Prima Guerra Mondiale, fu invece il presente a diventare infernale. Di conseguenza, la preistoria si trasformò in un paradiso perduto da recuperare. Entrambe le visioni sono ingenue. Il 2023 è un anno terribile. Ne sono, ahimé, esistiti altri, in qualsiasi passato.

In qualsiasi passato ci si deve essere sforzati per conseguire un migliore benessere collettivo…

Fino al diciannovesimo secolo erano frequenti studi comparativi con società di cacciatori raccoglitori. Se la densità era bassa e la mobilità alta, le società apparivano più egalitarie e i conflitti minori. All’estremo opposto, presso regioni geografiche con intensa produttività, le popolazioni erano più sedentarie e la stratificazione maggiore, con la schiavitù presente anche qualora non si praticasse l’agricoltura. Eppure, tra i due estremi, era documentata ogni possibile situazione. Ecco, credo che nella preistoria accadesse lo stesso. Fondamentale per capire come ci si organizzasse socialmente e come interagissero gruppi diversi è indagare su quante risorse energetiche e alimentari gli esseri umani potessero ricavare dall’ambiente in cui vivevano. E fondamentale, per noi, è non ripetere gli errori del passato, quando si prendeva un piccolo punto in Europa e si esportavano le deduzioni a un mondo altro.

Per capire come gruppi diversi si organizzassero socialmente, interagendo, bisogna indagare sulle risorse energetiche e alimentari che potevano ricavare all’ambiente

Un universo che si dipana da un’Africa mitica. Anche su di essa gravano sovrastrutture mitologiche?

Senza dubbio, quando qualcuno insiste sulla favola di un giardino dell’Eden ben localizzato. Jebel Irhoud, dove abbiamo retrodato la comparsa dei sapiens a 300mila anni fa, si trova in Marocco e pertanto insegna che dobbiamo cercare anche fuori dall’Africa orientale. Lì c’è un contesto geologico e paesaggistico estremamente favorevole alla preservazione e al rinvenimento di fossili. Al quale poi si sommano fattori politici, linguistici, economici che ti aiutano se sei uno scienziato di lingua inglese. Ultimamente, ci si sta concentrando pure sul Sudafrica. In occasione di una conferenza, segnai sulla mappa i punti in cui erano stati rintracciati resti paleoantropologici per provocare il pubblico sul paradosso che già 50mila anni fa i nostri antenati sembrava prevedessero i futuri confini del Sudafrica: curiosamente, i punti erano costretti proprio entro i limiti attuali; non sconfinavano certo in Mozambico. Deve essere infine chiaro che l’assenza di evidenze non è un’evidenza di assenze.

Come si diffuse l’umanità in Africa?

Nell’ultimo mezzo milione di anni, diverse linee di ominini si sono evolute più velocemente rispetto agli altri primati. Nel caso dei neandertal, quando si verificava un collo di bottiglia genetico dovuto alla riduzione drastica dei membri di una popolazione, fortuitamente i geni dei superstiti si trasmettevano agli eredi, determinando quell’incremento nella frequenza di alcune caratteristiche che ho definito «modello di accrescimento». Più aumentano i fossili a disposizione, più si fa difficile dimostrare l’occorrenza di momenti di separazione netti tra le linee evolutive. Da qui l’eccezionalità di Sima de los Huesos, in Spagna, che ha restituito almeno ventotto individui risalenti a 430mila anni fa. Da tali pre-neandertaliani, ebbe inizio un accrescimento di caratteristiche che avrebbe portato a quelli che conosciamo come neandertal tipici.

A quali studi le piacerebbe dedicarsi ora?

Vorrei tornare in Nord Africa e indagare quei siti che possono documentare le popolazioni appena precedenti al principale movimento Out of Africa: direi tra 150 e 50mila anni fa, quando si sviluppò la cosiddetta «modernità comportamentale». Perché si cominciò, allora, a produrre oggetti simbolici.

Deve essere questa la causa per cui, in seguito, ci espandemmo ovunque. Ormai la nostra specie, oltre a migliori tecnologie, aveva sviluppato abilità nel creare reti di solidarietà tra individui che, pur non conoscendosi, sapevano di appartenere alla stessa gente, con credenze simili.

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