«Hairatan?». Sul viale esterno della stazione ferroviaria di Termez il tassista va sul sicuro. Qui nel profondo sud dell’Uzbekistan ci si viene a fare i turisti, visitando i siti archeologici e i mausolei di questa città sonnolenta. Ma siamo fuori stagione. Oppure per varcare il confine con l’Afghanistan. Ed è “piena stagione”. Da metà luglio, da quando i Talebani sono al potere e i voli internazionali sulla capitale afghana sono stati cancellati, è particolarmente battuta la rotta che da Tashkent – capitale dell’Uzbekistan dove il presidente Shavkvat Mirziyoyev è stato appena riconfermato – arriva a Termez e poi ad Hairatan, passando per Samarcanda.

NON SONO POCHI GLI STRANIERI che nelle ultime settimane hanno percorso il “ponte dell’amicizia”. Quando le truppe d’occupazione sovietiche entrarono in Afghanistan, nel 1979, il ponte non c’era. C’era dieci anni dopo, quando si sono ritirate, sconfitte dai mujahedin. A testimoniarlo, foto celebri: una fila di carri armati passa il ponte. Ad attenderli, sul lato sovietico, bandiere rosse e uno stuolo di giornalisti.
Più di trent’anni dopo le truppe statunitensi hanno lasciato il Paese via aerea. Nessun saluto, nessuna foto-simbolo. I giornalisti oggi percorrono il “ponte dell’amicizia” in direzione contraria. Come allora, sotto il ponte metallico scorre lento il fiume Amu Darya con i suoi sedimenti fangosi, l’Oxus dei romani che nasce nel Pamir e che i capricci umani hanno trasformato in una frontiera.

DI NUOVO C’È PERÒ che al potere, questa volta, ci sono i Talebani. Combattenti di una guerra che chiamano santa, guerriglieri sconosciuti a molti afghani, per anni hanno alimentato un vero e proprio immaginario. Ora governano il Paese. L’immaginario è realtà. Hanno il potere. Anche quello, elementare ma cruciale, di apporre un timbro sui passaporti.
«Sei un giornalista? Lì c’è l’ufficio». All’estremità del ponte sul lato afghano del confine, un paio di giovani talebani passano il tempo con lo sguardo chino sul telefono, al caldo del sole di fine ottobre. Nella piccola sala per le registrazioni, c’è un giovane funzionario. Rappresenta l’Emirato islamico d’Afghanistan. Un governo che rivendica sovranità, ma che nessuno Stato al mondo riconosce, per ora. Il funzionario è nato qui, nella provincia di Balkh, di cui Mazar-e-Sharif è capoluogo.

I RESPONSABILI DEL POSTO di confine sono di Kandahar, storica roccaforte del movimento. Manovalanza locale. Dal Sud, i pezzi grossi. Passaporto timbrato. Controlli veloci, approssimativi. Ai giornalisti stranieri è riservato un trattamento di riguardo. Ben diverso quello per i colleghi e le colleghe afghane. Tra loro, chi può ha lasciato il Paese. Gli altri prendono le misure. Qualcuno si è preso botte e frustate. Mentre noi entriamo in Afghanistan, nelle province di Parwan e Kapisa i giornalisti protestano: i Talebani hanno ufficializzato direttive censorie. A Kabul, vietata e interrotta una protesta delle donne.

Ponte dell’Amicizia tra Afghanistan e Uzbekistan@GettyImages

FUORI DAL POSTO DI CONFINE, i taxi collettivi che fanno la spola con Mazar-e-Sharif, importante polo commerciale di un Paese che per anni è cresciuto con l’economia di guerra, che da decenni si regge sui soldi altrui e che oggi è in ginocchio. Sul taxi viaggiano due imprenditori poco più che trentenni. Uno di loro vive da 5 anni a Tashkent. Torna a trovare la famiglia. «Arrivo a Mazar, poi da lì in bus fino a Kabul. Prima poteva essere un azzardo viaggiare via terra».
La stessa cosa ci ripete il militante dalla barba rossiccia che incontriamo al primo dei quattro checkpoint lungo la strada per Mazar: «Giornalista? Dillo che ora si viaggia ovunque. Non come quando c’erano i soldati stranieri. Allora sì che era pericoloso!». Che i pericoli venissero proprio dai Talebani, non va ricordato. Conta il ritornello, rodato: vi portiamo sicurezza, dateci la vostra libertà. Il contratto sociale dei Talebani. «Questi sono capaci di far crollare tutto, perfino il santuario di Hazrat Ali», la “moschea blu” simbolo della città, sostiene tra l’ironico e il preoccupato uno dei due imprenditori.

CON L’ARRIVO AL POTERE dei Talebani, Washington ha bloccato gli asset della Banca centrale afghana depositati alla Federal Reserve di New York. Fondo monetario internazionale e Banca mondiale hanno congelato i trasferimenti previsti. L’economia è in picchiata. Le agenzie dell’Onu paventano un collasso strutturale. A Roma va in scena il G-20, dopo quello straordinario sull’Afghanistan del 13 ottobre, e da Doha Suhail Shaheen, già portavoce della delegazione talebana in Qatar, nominato ambasciatore a New York ma senza posto ufficiale, ricorda ai “grandi del mondo” che intanto ci sono 1,2 miliardi di dollari promessi, da far arrivare presto. Fa riferimento anche ai soldi promessi a Kabul nell’ultima conferenza dei donatori prima del cambio di regime, nel novembre 2020 a Ginevra. Ma erano davvero altri tempi. Certo non felici. Oggi sono bui.
«Siamo molto preoccupati. I risparmi di ogni famiglia sono pochi. Una volta finiti, che si fa? Lavoro non ce n’è, qui», sostiene Shahzad, giovane attivista, in attesa di capire cosa farà. Cosa potrà fare.

NELL’ATTESA MAZAR-E-SHARIF è vivace come al solito. Le vie che si irradiano dal santuario sono piene di gente. Bancarelle su bancarelle, vestiti, stoffe e sul lato sud-occidentale verdure e frutta, con i melograni di stagione. I Talebani ci sono e si fanno vedere. «Ma molto meno rispetto ai primi giorni». Presidiano gli ingressi del santuario, siedono a bere tè nelle chaikhane all’aperto, li trovi al ristorante Mansoor, dove non si erano mai visti prima. Perlopiù giovani, molti con capelli e barba lunga, si muovono in gruppi di due o tre, sempre con le armi. La loro bandiera bianca con la scritta nera della shahada, la professione di fede islamica, è un po’ ovunque. Anche sugli orrendi campanili costruiti pochi anni fa ai lati del santuario. Di notte è illuminato. L’elettricità viene dall’Uzbekistan, oltre il “ponte dell’amicizia”. Il debito afghano è enorme. «Pagheremo», assicura l’Emirato islamico.