Dalle strade le donne sono sparite; i talebani, che avevano promesso di rispettarne i diritti, hanno dato un nuovo giro di vite. Le afghane non possono più frequentare le scuole, né uscire da sole; non hanno luoghi d’incontro. Si tratta della forma di apartheid più dura della storia recente.

LA MAGGIORANZA dei “turbanti neri” non conosce l’arabo, ha appreso i sutra nelle madrase pakistane e assimilato l’arte della strategia. Il clan ispira il nuovo sistema di potere: un diritto consuetudinario, in cui le decisioni sono prese dai mullah e da un consiglio. Gli editti lasciano spazio all’interpretazione e richiamano il codice tribale Pashtunwali.

Le decisioni possono mutare con rapidità e riguardare aspetti minuti della vita: è vietato scattare foto per strada e sono stati chiusi i bagni femminili. Ai maschi è prescritto il perahan, abito tradizionale, di frequentare la moschea e pregare. In ogni ufficio di qualche rilevanza presenzia un mullah, competente per organizzazione e questioni etiche; il motto è «prima l’Islam, poi l’Afghanistan».

L’IMPOSIZIONE DELLA SHARIA versione pashtun è stata graduale. Dalle strade son sparite le raffigurazioni d’esseri viventi; le pubblicità sono rare e riportano oggetti, disegni astratti e caratteri cubitali. Con una rilevante eccezione: una gigantografia all’aeroporto di Kabul celebra l’amicizia tra Afghanistan e Cina. La bandiera nazionale è stata sostituita con l’insegna dell’emirato: prima sutra coranica su sfondo bianco. Chiusi cinema, associazioni culturali, vietata ogni forma d’arte e distrutti gli strumenti musicali. Ascoltare Beethoven nella propria auto è reato.

Le punizioni corporali sono applicate raramente e i nuovi taleb non si azzardano ad appendere le mani mozzate ai cavi della luce o a lapidare le donne allo stadio. Le misure discriminatorie sono invise alla classe media, che le ritiene dannose per lo sviluppo e l’immagine del paese. Considerazioni che inducono molti a giocarsi la carta dell’espatrio: tra loro Torpekai Amarkel, reporter radio, perita per ignavia della Guardia di finanza italiana il 26 febbraio 2023 a Cutro, assieme al marito e tre figli.

Il motore del sistema è il mullah. Una generazione formatasi nelle madrase in era sovietica. Gente rude, non incline al compromesso, cresciuta con il kalashnikov a spalla.

LA MORSA DELLA MORALITÀ si stringe, ma rispetto al 2001 vi sono alcune differenze: i taleb non combattono la tecnologia, ma cercano di plasmarla. Negli anni ’90 era vietato possedere un televisore e chi veniva scoperto doveva fare un giro alla berlina nel suo quartiere. Ora i mullah sono costantemente in televisione, che hanno epurato da conduttori scomodi e donne. Non ci sono limitazioni nell’uso dei social, anche se è prevista una stretta. Gli uomini sono tenuti a portare la barba, ma gli agenti non si affaticano a misurarne la lunghezza. Polizia e milizie presidiano strade, avamposti, strutture militari. A Kabul le persone camminano con lo sguardo a terra; si vocifera di liste nere che potrebbero apparire al momento opportuno.

Le truppe scelte sono equipaggiate con gli M16 lasciati dagli occidentali, gli altri imbracciano vecchi Kalashnikov e portano sandali ai piedi. Pick up con le insegne dell’emirato scorrazzano per Kabul: a bordo reclute armate gridano slogan antioccidentali. Le basi abbandonate dagli Usa forniscono mezzi e materiali, compresi gli stivali anfibi, ai nuovi dominatori.

I taleb, un tempo esperti d’attentati, hanno fatto promesse sulla sicurezza del paese. La via per Herat, impraticabile da trent’anni, è affollata di camion e autobus sgangherati.

IL GOVERNO INTENDE DARE un segnale di discontinuità in tema di morale, corruzione e interferenze straniere. Gli informatori sono ovunque e i pochi occidentali sono sottoposti a stretta sorveglianza. Statunitensi e inglesi sono visti malissimo, un po’ meglio gli italiani, considerati poco combattivi durante l’occupazione.

L’emirato è riconosciuto da Pakistan e Qatar, ma l’intento è allargare il consenso. Chi la fa da padrone sono i cinesi, che non si considerano maestri di democrazia. La Cina è interessata a consolidare influenza e prestigio: in gennaio il portavoce Bilal Kaslimi è divenuto ambasciatore a Pechino. La politica del doppio binario, la Cina non riconosce l’emirato, è stata sperimentata con ottimi esiti in Estremo Oriente e Africa; Xi Jinping persegue obiettivi di penetrazione economica, dotando senza condizioni i partner di infrastrutture e tecnologia.

L’AFGHANISTAN POSSIEDE un corridoio a nord-est che lo collega con la Cina. Un retaggio britannico, che ora si rivela risorsa fondamentale: il Wakhan conduce al passo di Whakhjir dove i cinesi stanno pensando di costruire una superstrada a 5 mila metri di altitudine. La Cina ha un ruolo centrale nella ripresa del paese che, sfiorando il collasso, registra una sostanziale tenuta. I mercati afghani sono inondati dalle merci a basso costo, che ricambia il potente vicino in materie prime: gas e petrolio a nord, rame, oro, uranio, bauxite, carbone, ferro.

Le delegazioni di manager cinesi sono la regola: dinamici, pragmatici e non fanno domande. Si presentano in impeccabili completi gessati, trovando tutte le porte aperte. L’economia afghana si è riportata ai livelli pre-emirato e la moneta è tornata stabile. L’Afghanistan sta completando una transizione geopolitica verso la sfera orientale e già si parla di un suo ingresso nella nuova valuta Brics.

Una fila per il pane a Kabul (foto Ap)

A CAUSA DELLA GUERRA iniziata nel 1979, la rete stradale è in pessime condizioni e intere regioni sono isolate. E i cinesi realizzano; qui dopo Russia e Usa si parla di «Terza occupazione». Il Paese ha dovuto affrontare la più devastante carestia della storia recente e per quanti son rimasti, le sanzioni hanno rappresentato un’ulteriore beffa. Le famiglie più povere sono state costrette a vendere i figli e a migliaia sono morti di stenti. Generale è l’indignazione per i 7 miliardi di dollari sequestrati dagli Usa e destinati alle vittime dell’11 settembre. Da parte afghana si denuncia il fallimento di vent’anni di occupazione e l’estraneità del paese in un attentato in cui quindici su diciassette dirottatori erano sauditi.

LE PROSPETTIVE DI SVILUPPO sono compromesse dalla siccità, ormai endemica, e dalle temperature legate al climate change I ghiacciai sono ai minimi e la portata dei fiumi si è ridotta di due terzi. Kabul soffoca: la corrente viene erogata quattro ore al giorno e il rumore del traffico è sopraffatto dal rombo dei generatori, le cui emissioni rendono l’aria irrespirabile. Nelle strade, i bimbi barcollano nella neve con le ciabattine in plastica, i vestiti di cotone. Se la situazione appare migliorata, nella capitale la malnutrizione è diffusa. Le donne sole, che non possono uscire, mandano i figli alla ricerca di pane.

L’emirato ha concesso operatività alle agenzie internazionali, che nei primi mesi hanno rappresentato la speranza per milioni di afghani, ma che hanno dovuto ingoiare molti rospi. Tra cui la sospensione del personale femminile.