La vita di Ghaith Abu Raya è durata appena cinque giorni. Quella di Dhifallah Abu Taha solo un anno. I due bimbi sono morti domenica notte assieme ad altre 25 persone in un bombardamento aereo che si è abbattuto sui quartieri di Janeina, Shaboura e Salam di Rafah dove oltre un milione di persone vivono nella paura di una avanzata israeliana. Ieri sera la Protezione civile cercava i dispersi, inghiottiti dalle macerie delle case di due famiglie: Al Khatib e al Khawaja. Gli uccisi in questi ultimi raid su Rafah, riferiscono gli abitanti, sono almeno 30, tra di essi 12 donne e cinque bambini. A Nuseirat dalla polvere e dai detriti dell’abitazione della famiglia Othmani è emersa ferita ma per fortuna ancora viva Retaj, 10 anni. La bambina andrà ad aggiungersi alle migliaia di minori di Gaza che hanno perduto uno o entrambi i genitori.

A Gaza bombardamenti aerei e cannonate dell’artiglieria si sono fermati una sola volta lo scorso novembre, per sette giorni, durante l’unico cessate il fuoco tra Israele e Hamas. Poi è stata solo una lunga striscia di sangue, che non ha risparmiato nessuno. Eppure, il mondo comincia a normalizzare la guerra. Pensa che morte e distruzione siano alle spalle. Non è così. E a Rafah l’offensiva israeliana è già cominciata, intermittente, dal cielo per ora, con morti e feriti quotidiani tra i civili palestinesi. Ma gli egiziani, ci spiegano, «negoziano per impedirla» convincendo Hamas a liberare gli ostaggi. Ieri si attendeva la risposta del movimento islamico alla proposta avanzata nei giorni scorsi dall’Egitto. Al Cairo è giunta anche una delegazione israeliana. Sul movimento islamico è in atto un pressing asfissiante affinché accetti quella che il Segretario di Stato Blinken ieri al World Economic Forum di Riyadh ha descritto come un accordo «estremamente generoso». A questo punto, ha detto Blinken – atteso oggi in Israele – «l’unica cosa che separa gli abitanti di Gaza da un cessate il fuoco è Hamas». Non pare proprio.

Circolano diverse indiscrezioni sulla bozza di accordo. Secondo una di queste, l’intesa in discussione prevede il rilascio di 33 israeliani sequestrati il 7 ottobre. Il numero dei liberati sarà determinante per decidere la durata del cessate il fuoco, fino a un anno. Hamas è interessato alla tregua ma la vuole definitiva. Chiede inoltre il rilascio di 50 prigionieri palestinesi in carcere in Israele per ogni soldato sequestrato e 30 per ogni civile. Lo scambio dovrebbe avvenire in due fasi, con intervalli di tempo di dieci settimane. Israele da parte sua chiede che i palestinesi rilasciati vadano in esilio all’estero. Hamas ha sempre respinto questa soluzione. Secondo altre indiscrezioni durante il cessate il fuoco verrebbero annunciate non meglio precisate «iniziative» per la creazione di uno Stato palestinese. La leadership di Hamas pur proclamando la sua disponibilità nei confronti della proposta egiziana, vuole chiarimenti su alcune espressioni usate da Israele a proposito del ritiro delle sue forze da Gaza e il cessate il fuoco permanente che esprimono «intenzioni» o «disponibilità» e non affermano un impegno vero e proprio.

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Al di là delle indiscrezioni, appare evidente che l’«offerta generosa» ad Hamas ha lo scopo di riportare al più presto a casa gli ostaggi senza vincolare Israele alla cessazione permanente dell’offensiva militare e all’annullamento definitivo dell’attacco a Rafah. I video diffusi nei giorni scorsi da Hamas in cui tre ostaggi israeliani chiedono di essere riportati a casa, hanno messo in grande difficoltà il premier Netanyahu. Le immagini hanno alimentato il fuoco delle proteste delle famiglie dei sequestrati e degli israeliani favorevoli a un compromesso con Hamas. Nell’esecutivo israeliano, perciò, sono ore di caos e di veti incrociati. Lo scontro più acceso è tra chi, come il leader del partito dell’Unione nazionale Benny Gantz, chiede di facilitare l’intesa per il ritorno degli ostaggi, e l’estrema destra, che minaccia di far cadere il governo se sarà accolta la proposta egiziana. «Accettare quell’accordo sarebbe una resa umiliante», ha commentato il ministro ultranazionalista Bezalel Smotrich.

Sullo sfondo ci sono i movimenti degli Stati uniti e dei paesi del Golfo. La monarchia Saud ieri ha fatto sapere che le nuove intese bilaterali con gli Stati uniti avranno riflessi importanti anche sul futuro di Gaza. «La maggior parte del lavoro è già stata fatta, abbiamo le grandi linee di ciò che pensiamo debba accadere sul fronte palestinese», ha detto il ministro degli Esteri saudita Faisal bin Farhan dopo l’incontro con Blinken. Gli interrogativi sono molti. Riyadh si prepara a partecipare al «futuro governo» di Gaza assieme ad altre monarchie del Golfo? Oppure ha ottenuto dall’Amministrazione Usa la promessa di passi concreti per la nascita dello Stato di Palestina? Probabilmente nessuna di queste due cose. Pare che ai margini del WEF, Washington e Riyadh abbiano discusso, più di ogni altra cosa, della normalizzazione dei rapporti tra il regno saudita e Israele.