Oggi che la democrazia israeliana è in agonia sotto i colpi del governo più autoritario e illiberale della sua storia, è diventato un comodo luogo comune ricordare che le istituzioni democratiche in Israele hanno convissuto per decenni con una politica di discriminazione feroce e di apartheid. Raramente ci si chiede invece per quale ragione non solo i coloni o i fanatici nazionalisti, ma anche una quantità di cittadini ragionevoli e sinceramente liberali si siano adattati, un passo alla volta, a tollerare ingiustizie clamorose, rimuovendole dalla conversazione pubblica come un tema scomodo e imbarazzante.

La risposta in realtà la conosciamo tutti e pochi hanno davvero voglia di ascoltarla. Il punto è che una parte consistente della popolazione israeliana si è convinta che un compromesso con gli «arabi» sia semplicemente impossibile perché, al di là delle dichiarazioni ufficiali, il loro vero obiettivo resta e resterà sempre quello di spazzare via «l’entità sionista», ove occorra anche sgozzando uno a uno tutti gli ebrei di Israele.
Oggi il maggior successo di Netanyahu è che una simile convinzione sia diventata un sottofondo tanto radicato nella società civile, che nessuna forza politica può sfidarlo senza perdere immediatamente consenso e credibilità.

Per ottenere un tale risultato è stata necessaria un’opera certosina e ventennale di provocazioni e di avvelenamento dei pozzi, che ha reso i margini di dialogo praticamente inesistenti. Del piano fanno parte ovviamente gli insediamenti illegali, le forzature giuridiche e, soprattutto, un genere di repressione mirata, che ha sepolto sotto valanghe di ergastoli (e a volte di proiettili) i leader palestinesi che avrebbero potuto candidarsi al ruolo di interlocutori credibili, lasciando spazio solo ai più intransigenti o ai più corrotti. L’essenziale era cancellare dall’immaginario qualunque spazio di mediazione: o vinciamo noi o vincono loro. E stiamo vincendo noi.

Per la verità, i miliziani palestinesi non hanno fatto molto per smentire una simile visione delle cose. Ed è forse un esercizio futile chiedersi se abbiano mai davvero avuto la possibilità di fare qualcosa di più.

Quello che è certo è che il raid del 7 ottobre è stato una manna dal cielo per una politica di questo stampo. Chi può mai credere sul serio alla possibilità di un compromesso dopo le efferatezze di Hamas? Non è un caso del resto che la propaganda di regime le abbia subito pubblicizzate, anche a costo di ingigantirne la mostruosità. Con i mostri non si discute, si combatte. E l’ipotetica soluzione dei due Stati non cambia le cose. I confini fra Stati, lo sappiamo, sono quanto di più poroso esista e, al di là della trita retorica sulla sovranità, due Stati confinanti possono convivere solo se sussiste per entrambi una ragionevole certezza che l’altro non coltivi fantasie genocidarie. Col che si torna al punto di partenza.

Se lo schieramento pacifista intende uscire dallo stallo, è il caso forse di formulare a chiare lettere una verità tanto evidente quanto scomoda: che la sopravvivenza dei palestinesi come soggetto politico dipende oggi dalla loro capacità di convincere sé stessi e gli altri che la convivenza con gli ebrei israeliani non solo è possibile ma deve per di più costituire il loro primo obiettivo politico.

Che una tale convivenza si realizzi in due entità pseudo-sovrane, in due regioni federate o in un unico Stato, è un dettaglio tecnico del tutto secondario. L’essenziale è che gli uni e gli altri possano abitare con pieno diritto un fazzoletto di terra che, per quanto sia da millenni qualificato come «terra santa», non è in grado comunque di moltiplicare miracolosamente la propria estensione.

Non si tratterebbe certo di una passeggiata. L’alternativa però è un conflitto a oltranza, assurdamente distruttivo, da cui i palestinesi non hanno realisticamente alcuna possibilità di uscire vincitori.

È difficile, d’altra parte, parlare di convivenza mentre fioccano le bombe. Perciò, al momento, il terreno politicamente decisivo non è in fondo né a Gaza né in Cisgiordania. È nelle piazze, nei campus e negli spazi di confronto democratico in tutto il mondo, ovunque sia difficile impedire militarmente un dialogo costruttivo tra le due parti. Gli apparati di potere israeliani e occidentali lo sanno bene e per questo stanno esasperando censura e propaganda in modo così plateale.

La loro scure non è rivolta affatto contro i supporter del terrorismo (che, se non ci fossero, bisognerebbe inventarli) ma contro chiunque faccia balenare l’eventualità che una convivenza pacifica si possa veramente costruire. Incluso il Papa o il segretario generale dell’Onu. Se ne è avuta una prova a Roma il 25 aprile. Il vero bersaglio dello spezzone di corteo sponsorizzato da Israele non erano gli studenti con la kefiah, ma lo sparuto gruppetto di giovani ebrei che avevano il coraggio di chiedere apertamente il cessate il fuoco. Erano loro la spina nel fianco ed è per loro che si è allestito lo spettacolo penoso delle provocazioni, il lancio di piselli e altre prodezze. I manifestanti più ingenui e più focosi non sembrano essersene accorti.

Se ne erano accorte invece le femministe di Non Una di Meno, che a suo tempo hanno avuto l’intelligenza di aprire il loro corteo alle donne israeliane come a quelle palestinesi. Esattamente come i cortei di Black Lives Matter, tanto più insopportabili per Trump perché vi sfilavano assieme bianchi e neri. Perché c’è un solo modo per rendere l’idea di convivenza qualcosa di realistico e politicamente efficace: chiederla insieme.