Alla conquista di sé
Intervista Un incontro con la storica Michela De Giorgio per ripercorrere i mutamenti sociali e politici delle donne durante il primo conflitto mondiale
Intervista Un incontro con la storica Michela De Giorgio per ripercorrere i mutamenti sociali e politici delle donne durante il primo conflitto mondiale
Sia in Italia che all’estero, sono state molte le occasioni che hanno ricordato quest’anno il centenario della Grande Guerra. In uno scenario simile, è utile rammentare e illuminare l’interno mutamento socio-politico dei costumi e della mentalità delle donne come trasformazione del tessuto sociale.
Tra le storiche che si sono occupate della «grande guerra», e di ciò che nella rappresentazione assume la vita delle donne, si può fare riferimento, tra le altre, ad Anna Bravo, Bruna Bianchi e Michela De Giorgio. A lei, che ha studiato in particolare il cambiamento di paradigma delle italiane nei momenti di snodo storico – per esempio, nel suo volume poderoso Le italiane dall’unità a oggi (Laterza 1992) e che di recente ha scritto un saggio intorno alla cultura del materno tra il 1900 e il 1920 in Di generazione in generazione (Viella, 2014) a cura di Maria Teresa Mori, Alessandra Pescarolo, Anna Scattigno e Simonetta Soldani – abbiamo posto alcune domande.
Come si può definire il cambiamento di mentalità e costumi delle donne negli anni della prima guerra mondiale?
È necessario, innanzitutto, far riferimento a un processo storico e sociale più lungo. Un primo cambiamento avviene al passaggio del secolo. Il secolo nuovo, il Novecento, rappresenta un punto di svolta anche nella vita delle italiane. Il racconto della mentalità e dei costumi non deve seguire esclusivamente il percorso giuridico che spesso ha assunto forme restrittive rispetto a mutamenti già in atto nelle esistenze delle donne. Fonte di innovative condotte femminili, dettate da comportamenti sociali, valori sentimentali e cultura delle appartenenze, il primo conflitto mondiale è l’evento investito dalla responsabilità della Plus Grande Guerre – così la vedeva Paul Morand – dei sessi in primo luogo. Lo sconquasso postbellico è in capo a uno spirito di modernità che sembra rivitalizzare la fisionomia sentimentale e sociale. C’era da parte di alcune intellettuali l’intendimento di opporsi alla «moderna» mascolinizzazione delle donne ma anche la consapevolezza di quel passaggio tra l’essere fanciulle e il divenire ragazze, «giovanotte», sicuramente più forti e libere. Alcune di loro erano già emancipate, nonostante la strisciante tendenza alla denigrazione delle capacità femminili. La guerra rappresenta la cesura, l’evento che, benché appaia nelle rappresentazioni come il campo di eccellenza delle qualità virili, determina anche la grande visibilità di nuovi ruoli delle donne, con il moltiplicarsi dei loro compiti sul fronte interno e nelle retrovie.
La trasformazione del lavoro è stata non solo relativa all’allontanamento degli uomini arruolati, bensì un fenomeno detonante l’intera configurazione socio-economica. È quel che descrive nel suo «Donne e professioni» (Storia d’Italia, Annali, 10, Einaudi, 1996) interno al volume curato da Maria Malatesta….
Il varco che la guerra apre nelle possibilità di realizzazione sociale femminile è innegabile. La relazione tra donne e professioni fornisce una rappresentazione piuttosto fedele sul cambiamento della posizione sociale e degli effetti simbolici prodotti sulla costruzione dell’identità femminile, individuale e sociale. Alcune idee mostrano la loro intersezione anche in ambiente italiano tra fine dell’Ottocento e prima metà del Novecento entro cui il passaggio della Grande Guerra diventa cruciale.
Intanto l’antico interrogativo sulla ragione delle donne e l’uso sociale del sapere; infine la distinzione tra l’eccezionalità – dunque l’eccezione dell’eccellenza – e la regola – legata a doppio filo con la norma che è anche quella della subordinazione. Già dagli anni Settanta dell’Ottocento appaiono le prime professioniste italiane, seppure è già dalla fine del Settecento che si possono registrare nella pubblicistica politica i primi segnali rivendicazionisti. Ciò per dire che quel lievito dell’utopia fermenta in una fisionomia del lavoro femminile che esploderà e muterà ulteriormente nel passaggio della Grande Guerra. Già presenti laureate in lettere, giurisprudenza ma anche medicina, il mutamento dei costumi si avvale della spinta femminista e della presenza delle donne nella scena pubblica attraverso le riviste a loro dedicate.
Sul tema credo sia sempre notevole il volume di Barbara Curli, Italiane al lavoro (1914-1920), edito da Marsilio (1998). In fondo non ci sono moltissimi studi relativi a quella trasformazione di cui stiamo parlando e che, tuttavia, è stata potente. Penso che gran parte del cambiamento sia relativo all’orfanità. L’alto tasso di mortalità di quegli anni non è sufficiente, secondo me, per decifrare ciò che si andava configurando: un taglio dettato dalla scomposizione delle famiglie con donne che restavano sole a volte senza più fratelli, mariti e padri.
In qualche misura l’orfanità può aver prodotto in queste donne una consapevolezza della perdita, ma anche della liberazione?
Certo. In contesti drammaticamente scomposti, i lutti hanno messo a dura prova sia le famiglie mononucleari-borghesi che quelle rurali-patriarcali. In alcuni numeri del 1919 della rivista femminile Cordelia diretta da Ida Baccini, la rubrica della posta delle lettrici conserva oggi elementi importanti sull’argomento: molte giovani donne scrivevano ancora a proposito di fidanzati e persone care scomparse e spesso mai più ritrovate. Ma è interessante anche segnalare ciò che nel 1920 Laura Orvieto annotava nell’Almanacco della donna italiana: «Si sfasciano le rotaie che i secoli avevano fabbricato e che indicavano all’umanità il cammino da percorrere: rotaie familiari, sociali, religiose, tradizionali».
Ciò indica anche l’inevitabile complessità delle relazioni tra madri e figlie. Alle prime, spesso vedove, non fu facile opporsi ai desideri di indipendenza e ribellione delle figlie. Si tratta, tuttavia, di un quadro di cui la storiografia non si è a sufficienza occupata. Di recente ho visto a New York, per uno degli appuntamenti in ricordo della Grande Guerra all’istituto francese di Colombia, Bertrand Tavernier – regista di La vie et rien d’autre (1989). Mi sembra che, a differenza dei nostri film di riferimento (penso fra tutti a La grande guerra di Mario Monicelli), in questo lavoro di Tavernier si evinca di più il punto di vista di una donna, cioè in questa ricerca fatta da Irène de Courtil, interpretata da Sabine Azéma, di un caro scomparso. È proprio la ricerca e il ricordo dell’ignoto a differenziarla dall’approccio antropometrico e positivista del dottor Delaplane, medico di guerra interpretato da Philippe Noiret. Del resto, in Francia, si contano ottocentomila tra sconosciuti e dispersi e Tavernier ci ha esposto che cosa è stato il disordine nelle famiglie, oltre ai lutti effettivi.
Lei ha dedicato pagine molto interessanti alla moda. Ci sono state resistenze culturali in merito?
Nel dibattito post-guerra, anche tra le più illuminate osservatrici, c’è sempre l’idea della moda tentacolare, corruttrice. Tra le poche voci in controtendenza c’è quella di Gina Lombroso che, già nel 1917, il più terribile anno di guerra, sul quindicinale torinese La Donna, affermava che «nella generazione che ci ha precedute, le ragazze non potevano cambiare di rango, il quale era loro fissato dai genitori».
Per lei il desiderio di moda così osteggiato dai benpensanti non era la Caporetto della morale femminile bensì una forza coesiva e propulsiva del mondo giovanile che permetteva alle donne di cambiare status. Nonostante il padre Cesare dicesse loro di restare così come erano, asinine, lei e la sorella si sono laureate in medicina a Torino. C’erano poi i capelli corti – «l’annosa questione», come la chiama Matilde Serao e il suo racconto di un villaggio francese in cui un parroco si era imposto di non dare la comunione alle donne con i capelli alla garçonne. Così le altre donne si ammutinano e nessuna va a prendere la comunione.
Con acume sociologico F. Scott Fitzgerald consacra la gloria delle ragazze del 1917 come «nucleo essenziale della generazione sregolata; quel modello venne divorato dalle ragazze più grandi e più piccole intenzionate a non farsi mancare proprio niente, visto che le sregolate sembravano divertirsi un mondo». Chi erano le garçonnes e le nostre avanguardie?
Christine Berd ha cercato di quantificare il fenomeno del garçonnismo. Anche Mary Louise Roberts, allieva di Joan Scott, ha lavorato su alcuni corpi mitici e imitati, referenti epocali che rifondano una nuova estetica anatomica femminile come il corpo di Sarah Bernhardt e ha decostruito tutto il dibattito francese del dopoguerra, sulla scelta femminile di massa di liberarsi dell’aureola capillare da fanciulle del «mondo di ieri» per il taglio maschio. Le garçonnes erano donne che, al di là della forma quasi androgina di sé, si presentavano sulla scena pubblica tra il 1919 e il 1920 con una moda sciolta, di snellezza, senza busto e calze.
Per Roberts il capello corto ha rappresentato un tentativo simbolico di legame con i morti come a raccogliere il lutto collettivo per trasformarlo in una nuova immagine che non tacesse però l’autonomia conquistata di se stesse.
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