Cultura

Alla conquista della leggerezza

Alla conquista della leggerezzaWatermelon, Naples, 81

Intervista Un incontro con il reporter americano che, nel suo libro «Dolce via», uscito per Damiani, ha raccontato l'Italia degli anni 80, appena risvegliatasi dall'incubo degli anni di piombo

Pubblicato più di 9 anni faEdizione del 13 febbraio 2015

Grand Palais, durante l’edizione 2013 di Paris Photo, quella con Charles H. Traub (1945, vive a New York) e ripresa poi a New York quest’anno, sfogliando Dolce Via. Italy in the 1980s (Damiani). Il sottotitolo del volume chiarisce subito che si tratta del libro fotografico che raccoglie una selezione degli scatti realizzati dal reporter americano durante i suoi viaggi nel Belpaese.
Fotografie a colori che raccontano momenti estivi, vissuti con estrema disinvoltura sia davanti che dietro l’obiettivo. Si può intercettare un po’ d’ironia e anche d’innocenza in questa visione disincantata del Grand Tour che attraversa la penisola, da Milano a Marsala. «Vedi le nostre debolezze, ci spogli e ci denudi, fai l’amore attraverso la telecamera e infine ci veneri», aveva affermato Luigi Ghirri, amico e guida di Traub. Indubbiamente, in queste immagini si assiste a una riappropriazione da parte degli italiani – che si riflette anche sui visitatori stranieri – della voglia di vivere più spensieratamente, dopo la fase cupa segnata dagli anni di piombo. Bellezza e vitalità, ma anche una percettibile decadenza destinata a palesarsi negli anni a venire.
L’autore parla di leggerezza. Leggerezza nei movimenti, nelle dinamiche del racconto, farcito di aneddoti da fotografare. «Tutto deve essere letto in superficie, parafrasando Oscar Wilde – afferma Traub – E l’Italia, in quell’epoca, era il luogo perfetto per mettere alla prova una dichiarazione come questa. La complessità della cultura italiana è una fonte inesauribile di ispirazione».

Charles H. Traub, two girls in yellow Siena 83  (Dolce_Via_22)

Charles Traub, fondatore – oltre che responsabile – del dipartimento Mfa Photography, Video, and Related Media alla School of Visual Arts di New York, nonché presidente della Fondazione Aaron Siskind, ha pubblicato numerosi volumi, tra cui Beach (1977), Italy Observed (1988) e Still Life in America (2004). «Non ho avuto una formazione artistica precisa, gli studi letterari mi hanno aiutato a scoprire come si possono tradurre le proprie esperienze attraverso un linguaggio metaforico – spiega il fotografo – È stata un’avventura eccitante. La sperimentazione è arrivata successivamente, ai tempi dell’Institute of Design, dove l’insegnamento metodologico enfatizzava la tradizione modernista del Bauhaus, incoraggiando ogni tipo di ricerca, dalla solarizzazione ai contrasti tonali. Lì ho capito che la mia vita sarebbe cambiata per sempre».

Quando è nato il suo interesse per la fotografia?
Come molti fotografi, artisti e curatori mi sono formato in Letteratura inglese, ma nell’ultimo semestre dell’anno finale del college mio padre morì e mi lasciò la sua macchina fotografica. Era un vecchio modello di Leica IIIF e dovevo decidere cosa farne. Da ragazzino ricordo che andammo dal Kentucky, dove sono cresciuto, al centro dell’Illinois per fare visita a mia nonna. Forse non tutti conoscono l’Illinois: il paesaggio è piatto come un pancake. Sì, veramente piatto! Avrò avuto otto o dieci anni e mio padre guidava quando, arrivato al confine tra i due stati, disse qualcosa come: «Oh, siamo nella terra di Lincoln!». Lì, infatti, Lincoln aveva ottenuto la maggioranza di voti. «Ma Lincoln è nato nel Kentucky – ribattei io – Una terra meravigliosa con colline e tanto verde, non come qui». E mio padre, con grande saggezza, mi apostrofò: «Figlio mio, tu non vedi». «Non vedo, cosa?». «La bellezza è nella linea dell’orizzonte». Anni dopo ho avuto l’opportunità di frequentare, nella stessa zona, un corso di studi di arte alla University of Illinois. Osservai per la prima volta una bellissima veduta panoramica di un famoso fotografo che si chiamava Art Sinsabaugh. Era il mio insegnante. Guardando quella foto, ho capito che in quella immagine c’era tutto ciò di cui mi aveva parlato mio padre…

Tra gli altri incontri significativi c’è stato Aaron Siskind, preceduto da Ralph Eugene Meatyard…
Prima c’è stato il periodo in cui avevo deciso di unirmi ai Peace Corps. Avevo sposato una donna che era volontaria, ma ebbe un incidente e fu uccisa poco dopo il nostro arrivo in Etiopia con l’auto di un poliziotto in fuga. Venni ferito anch’io e rimandato a casa a Lexington, nel Kentucky. Avevo sentito parlare di Ralph Eugene Meatyard e gli telefonai. Buona parte della mia famiglia – anche se io non ci sono – ha fatto da modella per la sua ultima serie, The Family Album of Lucybelle Crater. Il suo lavoro è stato di grande ispirazione per me. Subito dopo andai sotto le armi, ma due settimane prima di partire per il Vietnam stetti male e fui buttato fuori. Telefonai a Aaron Siskind a Chicago e gli raccontai la mia storia, gli dissi che volevo studiare fotografia e anche che conoscevo Meatyard e Sinsabaugh. Lui rispose di presentarmi a settembre. Aaron è stato come un padre per me, un mentore. A Chicago c’era un clima molto accogliente, con i miei amici e colleghi avevo un rapporto stretto. Eravamo una comunità. Malgrado tutto, sono stato fortunato.

A Chicago ha iniziato la sua lunga carriera di docente, che procede parallelamente a quella di fotografo. Dal 1971 al ’77 ha insegnato al Columbia College e nel ’76 ha fondato il Chicago Center for Contemporary Photography (che sarebbe poi diventato il Museum of Contemporary Photography), prima di trasferirsi a New York, alla School of Visual Arts. Cosa ha rappresentato, in particolare, l’esperienza della Light Gallery?
La Light Gallery è stata qualcosa di diverso da tutte le altre gallerie. Intanto, lì non si stampavano foto, ma si esibivano. Era una galleria che rappresentava la maggior parte dei fotografi contemporanei viventi, non quelli del Novecento, come Edward Steichen, che erano già riconosciuti ufficialmente. Non c’erano fotografi commerciali, ma soprattutto giovani creativi e sperimentatori. Si parlava sempre di arte. La cosa più stimolante era organizzare le mostre basate su idee curatoriali che non fossero didattiche. Tra le rassegne più importanti che ho curato, c’è stata la personale di Luigi Ghirri nel 1979, anche quella di Ray Metzker o Mario Giacomelli… Volevo però continuare a fare il mio lavoro di fotografo, per questo, ad un certo punto, sono andato via.

Charles H. Traub, kids in red with ice cream Venice 81  (Dolce_Via_24)

Ai primi anni ’80 risalgono anche i suoi viaggi in Italia raccontati in «Dolce Via»…
In quel decennio, mi recavo in Italia frequentemente. Ho anche collaborato con Luigi Ballerini, uno scrittore italiano che insegna Letteratura Italiana alla University of California, con cui nel 1991 realizzai il volume Italy Observed in Photography and Literature. Con Luigi Ghirri ci conoscemmo nel 1979 al Festival di Arles. L’anno successivo organizzai alla Light Gallery la sua prima mostra newyorkese importante. In Italia, spesso ero suo ospite, abbiamo viaggiato molte volte insieme. La nostra amicizia era «divertente». Malgrado nessuno di noi parlasse realmente la lingua dell’altro, riuscivamo a comunicare bene, condividendo l’amore per il cibo, il viaggio, le immagini e il mezzo fotografico. Entrambi abbiamo lottato per il riconoscimento del ruolo della fotografia all’interno della cultura, come forma d’arte rilevante e, addirittura, dominante.
Sostenere i giovani produttori di immagini, che stavano esplorando le possibilità di ciò che si può comunicare con l’obiettivo, era il mezzo per diffondere un’eredità.

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