Alla Biennale musica tra sperimentalismi e basi jungle
Musica Sean Canty e Miles Whittaker, con laptop e giradischi il duo di Manchester crea nuove piattaforme sonore. Delude Tam Dun
Musica Sean Canty e Miles Whittaker, con laptop e giradischi il duo di Manchester crea nuove piattaforme sonore. Delude Tam Dun
Tra i «giganti» della prima parte di questa Biennale Musica 2017, quello vero ma fuori forma, Stockhausen, e quello fasullo, Tan Dun, spuntano due acuti pensatori del contemporaneo: Sean Canty e Miles Whittaker del gruppo Demdike Stare. Con laptop e giradischi procedono su una base ritmica tipo «jungle» e immettono campioni presi dallo sperimentalismo musicale del ‘900 e del 2000, compresi frammenti del Gruppo di Improvvisazione Nuova Consonanza. Lo fanno creando nuove piattaforme sonore, ora accidentate ora distese. Una parte centrale è fascinosissima: ampie ondate di suoni astrali languidi. Spunta ancor più nettamente il Parco della Musica Contemporanea Ensemble diretto da Tonino Battista. Introduce nel festival gli autori che interpretano il tema: l’Oriente musicale per come può essere propulsivamente nella globalizzazione. Unsuk Chin, 56enne sudcoreana, vera star. Che Leone d’oro sarebbe stata! In Cosmigimmicks (2011), costellazione severa di punti e arpeggi delicatamente disarticolati. In Gougalon (Scenes from a Street Theater) (2009-2011), sei «scene» più cariche emozionalmente, altrettanto sapienti nei passaggi di testimone tra gli strumenti che intreccia con inventiva miracolosa e totale radicalità. E in apertura il defunto «padre spirituale», Isang Yun. Con Pièce concertante (1976), «sogno viennese» (come non sentirci qualcosa del primo Schönberg?) di rara eleganza.
Parliamo degli sforzi della Biennale Musica per recuperare l’antico prestigio. La mossa del Leone d’oro a Tan Dun è solo demagogica. Dispiace sembrare snob. Ma il popolare compositore cinese-americano si rivela un fenomeno da baraccone. Poco più. Dirige lui stesso l’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai. In Passacaglia: Secrets of Wind and Birds (2015) orchestrali e pubblico impugnano cellulari che diffondono l’unica cosa buona del pezzo, cioè un gioco onomatopeico di suoni simili ai canti degli uccelli, gioco che però segue i criteri «informali» dell’avanguardia. Divertente. Quando sfuma la «melodia» dei cellulari vien fuori il vero Tan Dun.
Un motivo in unisono proprio da film-cartolina con vaghi sapori d’Oriente, un altro motivo analogo più ritmico, un finale in accelerando di pessimo gusto. Percussion Concerto: The Tears of Nature (2012) offre almeno la possibilità al solista Simone Rubino di impiegare una bravura fuori dal comune. Usa pietre, gong, bastoni della pioggia, grancasse, rullanti, marimbe, xilofoni. L’orchestra interloquisce con motivi ultra-orecchiabili sempre sul genere film western-con-oriente in cinemascope d’antan. Con Concerto for Orchestra (2012) Tan Dun si riscatta un po’. Saccheggia lo Stravinskij del Sacre, varie cose di Bartók e Bernstein. Ha un gran mestiere, innegabile. Non gli ci vuole niente a congiungere l’esotismo (falso: è violenza della contemporaneità) del Sacre con l’esotismo vero suo. Impiego dei colori e capacità di muovere dinamicamente i blocchi orchestrali sono di prim’ordine.
A proposito di prospettive della Biennale Musica il cronista del manifesto deve fare autocritica. In un articolo di presentazione della rassegna di quest’anno ha espresso ammirazione per Inori (1973-’74) di Karlheinz Stockhausen. Ne aveva ascoltati i soli cinque minuti iniziali che gli avevano fatto sperare meraviglie. Invece è una delle peggiori opere scritte dall’immenso compositore tedesco. Inizia con l’orchestra che suona una sola nota (e che sarà il punto di riferimento, il suono ricorrente, di base, di tutto il pezzo), non certo nello spirito ieratico di uno Scelsi ma, ben presto, nello spirito di uno Stockhausen più «crucco» che mai. Non c’è la promessa meditazione in clima zen ma passaggi pomposi e sviluppi (quello che in chiave orientale non ci dovrebbe essere…) in una logica da poema sinfonico ottocentesco. La mima/danzatrice Roberta Gottardi sembra una bella statuina. Esegue scolasticamente le figure prescritte dall’autore come «stimoli reciproci» con la musica e che si mostrano disgraziatamente come didascalie talmente pedanti da indurre noia assoluta. L’ottimo direttore Marco Angius fa quel che può sul podio dell’Orchestra di Padova e del Veneto.
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