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Quando Glbt significava sovversione

Quando Glbt significava sovversioneNotti selvagge di Cyrl Collard

Cinema Il cinema gay e di genere parte fondante della sezione del festival che inaugura domani la sessantaquattresima edizione

Pubblicato più di 10 anni faEdizione del 5 febbraio 2014

New York 1969. Muore Judy Garland e in Christopher Street viene assaltato dalla polizia un bar frequentato da lesbiche, gay e transessuali dando inizio a quella rivolta che segna la nascita del cosiddetto «movimento gay». A Berlino Rosa von Praunheim gira Nicht der Homosexuelle ist pervers, sondern die Situation in der lebt (Non è l’omosessuale a essere perverso, ma la situazione in cui vive).

Il film di von Praunheim racconta l’arrivo a Berlino di Daniel, un giovane uomo cresciuto in provincia, il suo passaggio dalla relazione monogama con Clemens alla scoperta della «vita gay» fatta di bar, cruising, sesso occasionale, fino all’incontro con Paul, che lo invita nella sua comune abitativa e lo spinge a riflettere sull’identità gay e sulle sue potenzialità sovversive antiborghesi da fortificare attraverso l’alleanza politica con donne e neri.

In Germania Ovest il 1° gennaio dello stesso anno era stato modificato il famigerato paragrafo 175 del codice penale tedesco che proibiva gli atti omosessuali e Berlino, – in particolare l’area che si raccoglie attorno a Nollendorfplatz nel quartiere di Schöneberg, ritrovava quel ruolo di avanguardia e emancipazione nell’immaginario queer che il nazismo aveva cancellato. Dalla goldene Berlin anni 20 di Hans Magnus Hirschfeld (fondatore dell’Institut für Sexualwissenschaft), di Eigene, prima rivista queer di ispirazione anarchica, e di Christopher Isherwood si passa a quella di David Bowie, Lou Reed, dei ragazzi dello Zoo di Berlino; dalla fondazione di un’identità, a un’identità che prova a fare esplodere le altre.

Tra gli abitanti della comune queer di Non è l’omosessuale a essere perverso, ma la situazione in cui vive c’è Manfred Salzgeber, instancabile attivista e cinefilo, che nel 1969 fonda il Forum des Jungen Films, sezione della Berlinale, dove il film viene presentato nel 1971.

A metà degli anni 70, Salzgeber si trasferisce ad Amsterdam per sfuggire alle pressanti investigazioni anti-terrorismo che colpiscono spesso arbitrariarmente molti intellettuali militanti, e solo nel 1979 torna a Berlino. Il direttore della Berlinale, Moritz de Hadeln, lo convince a prendersi cura della sezione Info-Schau che dal 1986 si chiamerà Panorama, un nome neutro che però descrive un paesaggio di film in cui forma e contenuto sempre hanno a che fare con la vita, la politica e l’utopia di nuovi orizzonti.

A partire dalla fine degli anni 70 e per tutti gli anni 80, Panorama diventa il luogo di fabbricazione di un immaginario. Fedele alla militanza queer cinefila del suo fondatore, una parte fondamentale della programmazione viene lasciata a un cinema che ha scoperto il piacere di coniugare un’identità omosessuale, maschile e femminile, decisamente plurale che fino ad allora ancora appariva sullo schermo nei margini del non nominato. Le derive del desiderio che attraversano Toute une nuit di Chantal Akerman si incrociano con la Divine persa nel deserto di Lust in the Dust di Paul Bartel, mentre Derek Jarman crea con The Anjelic Conversation (Judi Dench legge sonetti di Shakespeare accompagnata dalla colonna sonora dei Coil, special guest Benjamin Britten) una sorta di summa estetica gay punk, e Robert Epstein racconta The Times of Harvey Milk, 25 anni prima di Gus van Sant che però esordisce proprio a Panorama nel 1986 con Mala Noche; ma anche il cinema lesbico underground di Barbara Hammer e la feroce ironia Austria gay felix di Peter Kern, e i primi squarci di gay black culture incisi da Isaac Julien contribuiscono a concimare senza sosta un campo dove crescono piante mai viste.

Panorama come la comune di Non è l’omosessuale a essere perverso… Sono la situazione sociale e economica, il contesto storico e politico ad essere perversi. Il cinema deve farli saltare lasciando proliferare sugli schermi le identità e le forme più diverse e irriducibili.

Nel 1987 Salzgeber, insieme a Wieland Speck che lo sostituirà alla direzione di Panorama cinque anni più tardi, fondano anche il Teddy Award, premio al miglior film LGBT, e ovviamente il film vincitore della prima edizione è La ley del deseo di Pedro Almodovar. È la legge del desiderio che in quegli anni irrompe a scardinare ordini costituiti sostituendoli con nuove comunità.

Gli anni Novanta si confrontano con l’Aids: le Notti Selvagge di Cyril Collard, The Living End di Gregg Araki, Philadelphia di Jonathan Demme e il folle musical di John Greyson Zero Patience. Salzgeber muore abbattuto dalla malattia nel 1994. Panorama continua il cammino intrapreso e trova il modo di lasciar emergere le nuove direzioni del desiderio, e non solo grazie alle incursione anarchiche no hope di Hustler White Bruce LaBruce, o alle mappature del gender, che sembra essere salvificamente non definibile, che Monika Treut traccia, provvisorie, nel suo Gendernauts. Da Hong Kong arriva Yonfan con Bishonen – Beauty che racconta altre possibilità estetiche dell’amore; da Istanbul irrompono Kutlug Ataman e Lola und Bilidikid, giovani turchi in Germania che cercano di trovare l’impossibile uscita nel labirinto delle identità di genere, di classe, di comunità di provenienza e di appartenenza, lasciando intravedere la possibilità che da altre zone del mondo possano giungere anticorpi capaci di prevenire quella cristallizzazione di un’identità gay imborghesita e appacificata di cui si cominciano a percepire i primi inquietanti segni.

Nel nuovo millennio qualcosa si rompe o forse si porta a compimento. Il capitalismo globale impera senza rivali. Berlino in dieci anni ha cancellato dalla sua topografia geografica, mentale e politica, tutte le fratture/ferite tra est e ovest. La gentrification regna sovrana. Anche la gentrification dell’immaginario: i bagni pubblici di Wittembergplatz hanno chiuso e non si può più andare a scoprire la propria identità Ai cessi in taxi. La Berlinale apre al kulinarisches Kino,cinema e cibo, manco che il direttore del festival sia Gordon Ramsey.

L’immaginario LGBT diventa «immaginario unico», e quel cinema che sembrava aver aperto spazi in cui altre convivenze, altre relazioni affettive, economiche e sociali potessero germogliare si ritrova vintage. I «mostri sovversivi» diventano divertenti e innocui, tutt’al più autodistruttivi, Party Monsters nel film di Randy Barbato. Non basta l’angry inch di Edwig a risollevare le sorti di un panorama ormai desolato. Le anarchiche orde del desiderio sono i morti che camminano di Otto: or, Up with the dead People, novelli Orfei alla ricerca di Euridici perdute.

A Panorama abbondano i documentari/santini su Andy Warhol, Derek Jarman, Gilbert&George, Karl Lagerfeld; i film che arrivano da altre parti del mondo, sembrano voler compiacere un’idea puramente occidentale di omosessualità, rassicurando nella sua bontà la gay community e l’immaginario borghese come un alien colonizza gli schermi e le menti riempiendole di immagini di matrimoni e famiglie mononucleari felici, sacrificando giuste lotte per la diffusione dei diritti al totem della normalità. Quell’immaginario fatto di frammenti di identità e di corpi mutanti che sembrava capace di ricostruirsi e reinventarsi incessantemente, ha lasciato il passo a una comunità monolitica, neocoloniale. Judith Butler nel 2010 rifiuta di ricevere il Zivilcourage Preis, premio al coraggio civile, offertole dal Pride di Berlino accusando il razzismo e l’omonazionalismo di molte associazioni LGBT.

La comune che aveva accolto l’errante Daniel non esiste più, Rosa von Praunheim si è rifugiato nelle New York Memories e il cinema queer più sovversivo sembra aver abbandonato la comunità di appartenenza alla ricerca di nuovi territori over the rainbow.

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