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«Alita» e l’epoca del cyberpunk in Giappone

«Alita» e l’epoca del cyberpunk in Giappone

Maboroshi L'uscita del film di Robert Rodriguez «Alita - Angelo della battaglia» è una perfetta occasione per (ri)scoprire l’OAV (Original Animated Video) prodotto e uscito nel 1993 in Giappone e l’anno successivo in Italia

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 22 febbraio 2019

L’uscita in Giappone nella prima metà degli anni novanta del manga Alita l’angelo della battaglia, coronava un periodo nel quale il cyberpunk era diventato uno dei «generi» che più erano riusciti ad intercettare l’immaginario popolare. Dai romanzi e racconti di William Gibson, passando per Akira e Tetsuo The Iron Man, fino ad arrivare al manga Ghost in the Shell di Masamune Shirow e al conseguente adattamento animato diretto da Mamoru Oshii, si arriva quindi al capolavoro che Yukito Kishiro serializza a partire dal 1990.

La trasposizione cinematografica di Alita l’angelo della battaglia, firmata James Cameron e diretta da Robert Rodriguez ora nelle sale di quasi tutto il mondo, è una perfetta occasione per (ri)scoprire l’OAV (Original Animated Video) prodotto e uscito nel 1993 in Giappone e l’anno successivo in Italia. Il periodo in Giappone era quello in cui si cercava di sperimentare con la «vecchia» tecnologia delle videocassette realizzando prodotti espressamente fatti per l’home video. Spesso serie di poche puntate ma di alta qualità: questo escamotage permetteva di saltare il passaggio televisivo e di conseguenza le sue censure, lasciando più spazio per contenuti più adulti, con tanto di violenza e scene di sesso per attirare un pubblico più vasto.

Battle Angel, conosciuto anche come Alita Battle Angel, è composto da due episodi di meno di trenta minuti ciascuno, in cui si copre solo la prima parte della storia del manga, infatti fu realizzato quando il fumetto era ancora in corso. In realtà se ne dovevano produrre altri, ma lo scarso successo costrinse la Madhouse e la Animate, le due case di produzione dietro al prodotto, a sospendere il progetto. Nonostante sia una trasposizione che condensa e taglia molti dei personaggi e delle sottotrame del lavoro originale e che strizza l’occhio al pubblico dell’epoca per alcune scene di sesso quasi gratuite, questi due episodi restano un interessante squarcio nell’universo di quello che una serie sulla giovane cyborg sarebbe potuta diventare.

Sono proprio le atmosfere di un futuro color ruggine e disperato dove l’umano è diventato un’entità ibrida e continuamente ricostruibile ad essere il punto forte di questa animazione. La storia è abbastanza risaputa, siamo nella città discarica dove Salem, una città sospesa nell’aria, getta di continuo i suoi rifiuti, e fra tutte queste macerie un giorno il professor Ido trova i resti di una ragazza. Di questa solo il cervello è ancora funzionante e il professore la ripara donandole di fatto un nuovo corpo cyborg, la storia si svolge infatti in un futuro dove i corpi possono venire facilmente riparati o ricostruiti. Alita, questo il nome che Ido dona alla ragazza (nell’originale Gally) ha perso completamente la memoria, solo quando è costretta a combattere, bagliori della sua vita passata ritornano in superficie.

Se il primo episodio serve a presentare l’universo in cui si svolgono le vicende ed i suoi personaggi, nel secondo vengono descritti i sentimenti della ragazza verso Yugo, un giovane che ruba e contrabbanda colonne vertebrali per poter raccogliere abbastanza denaro e recarsi così nella mitica città di Salem, vista da tutti come una sorta di paradiso. Così come nel manga, dove tutto ha però molto più spessore, non solo vengono accennate tematiche filosofiche quali la presunta dualità corpo/anima ed il significato dell’umano in un mondo fortemente artificializzato, ma nell’animazione ad emergere è soprattutto la lotta, quasi di classe, per uscire dalla discarica e la solitudine esistenziale della ragazza cyborg.

matteo.boscarol@gmail.com

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