Cultura

Alisa e la sua Odissea sudafricana

Alisa e la sua Odissea sudafricanaResoketswe Manenzhe

Intervista Parla la scrittrice e poeta Resoketswe Manenzhe, che ha pubblicato «Randagi», in Italia uscito per Solferino. «Il paese non affronta spesso la sua relazione con la schiavitù; alcune località turistiche, come le aziende vinicole del Capo occidentale, la praticavano e i discendenti vi vivono ancora oggi»

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 28 luglio 2022

Ha a che fare con le eredità culturali e razziali, l’etnicità e la nazionalità il libro Randagi della sudafricana Resoketswe Manenzhe (Solferino, pp. 321, euro 19,50, trad. Lucia Fochi). Lanciando uno sguardo straziante al nefasto «Atto di immoralità» che nel 1927 vietò le relazioni sessuali tra bianchi e neri in Sudafrica, narra dell’impatto devastante che quel documento esercita sulla famiglia di Abram, produttore di vini a Città del Capo, di origine olandese, e soprattutto su sua moglie Alisa, nata da schiavi nei Caraibi, adottata da un inglese, cresciuta nel Regno Unito, divenuta «cittadina del mondo» per aver tanto viaggiato. Si ritrova rimossa – almeno due volte – dalla sua casa ancestrale e alla disperata ricerca della sua identità perduta, condotta ai limiti della follia dall’incapacità di trovare un luogo di appartenenza che nessuno le possa contestare.

Perché tornare così lontano nel tempo, al Sudafrica pre-apartheid, esattamente in quell’anno? Quali erano prima di allora le condizioni storiche e sociali del paese e come quell’atto influenzò la sua storia, anche famigliare?
Volevo focalizzarmi su un periodo che riguardò negativamente soprattutto le donne nere. Nel 1948, quando l’apartheid era in atto, furono approvate molte leggi. La società sudafricana aveva continuato a evolversi aggirando anche le normative, come quella sulle terre indigene del 1913. Allora si dovettero approvare ulteriori leggi e si arrivò a regole apparentemente «frivole». Volevo focalizzarmi su una di queste perché non erano così trascurabili (come invece sono state dipinte dai media moderni). Per esempio, i bambini in parte neri non potevano reclamare nessun appezzamento (sottratta dalla Legge sulle terre indigene), altre proprietà o diritti di voto attraverso i loro genitori bianchi. Mi sono tenuta lontana dalle mie vicende personali per svariate ragioni; la più cruciale di tutte è che la storia sudafricana può essere molto dolorosa e affrontarla dall’interno del mio stesso nucleo affettivo avrebbe reso il processo di scrittura troppo gravoso.

La trama si sviluppa tra folklore e realtà vissuta, è una sorta di finzione letteraria storica, spesso scritta in forma lirica. Cosa ha significato per lei riviverla attraverso la narrazione? Pensa potrebbe essere una lettura catartica per il popolo sudafricano?
Ho introdotto anche della poesia perché rendeva più facile la transizione non solo tra i diversi personaggi ma pure tra le affabulazioni del folklore e la realtà. Questa è stata la parte semplice. Ma la storia di per sé è stata assai difficile da comporre, specialmente quando mi sono addentrata nella vicenda di Alisa, affrontando il trauma della discendenza da schiavi. Penso che i sudafricani la percepiranno in differenti maniere, a seconda di una combinazione di fattori come l’identità, l’età, la storia personale… Stranamente, il Sudafrica non esamina spesso la sua relazione con la schiavitù; alcune località turistiche, come le aziende vinicole del Capo occidentale, praticavano la schiavitù (i discendenti di queste persone vi vivono ancora oggi) ed è qualcosa che va riconciliato con l’economia attuale.
Diversi personaggi (tutte anime disperse) raccontano ciò che avvenne da diversi punti di vista. Tutti gli episodi sono inestricabilmente interconnessi al ricco patrimonio ancestrale di tradizioni, saggezza e leggenda della nazione (e del continente). Quanto sono importanti per la creazione del suo personale immaginario?
Sono debitrice alla cultura sudafricana per quanto riguarda la sua tradizione orale. Una delle ragioni per cui ho scelto quel periodo è che non c’era allora un’identità specificamente sudafricana a cui i personaggi potessero aggrapparsi. Il Sudafrica stesso è una risultanza coloniale decisa a Berlino. I confini imposti non erano naturali per le persone che ci vivevano. Gloria e Josephina, ad esempio, non si concepivano per certo sudafricane, e nemmeno il governo le considerava cittadine. Non esisteva proprio una voce univoca che i protagonisti potessero assumere.

La moglie di Abram, Alisa, rivelerà che le cose erano andate storte per lei già da molto prima, manifestando i segni di un profondo straniamento: come si relaziona la sua storia a quella della diaspora africana?
Alisa lotta in parte perché non ha mai avuto nessuno che potesse connetterla a qualche luogo o popolo. I suoi genitori biologici sono morti prima di poterle insegnare qualcosa d’altro rispetto i racconti folklorici. Quindi, non è mai stata connessa alla Giamaica o all’Africa. La sua famiglia adottiva non possedeva la sua storia culturale, così l’hanno cresciuta alla loro maniera, e ciò ha condotto al suo straniamento dal popolo nero. C’è una frattura riguardo alla sua cittadinanza, la sua cultura, le sue esperienze.

Dido, figlia mulatta di questa coppia mista, non ha diritto di cittadinanza nella terra in cui è nata. Tuttavia, nonostante la giovane età, è forte e saggia e si mette alla ricerca delle sue radici. La speranza per il futuro risiede dunque nelle nuove generazioni?
L’apartheid, e tutte le leggi correlate, hanno danneggiato profondamente il Sudafrica. È vero che va riconosciuto oggi uno sforzo attivo per costruire un paese una società migliore, reclamando anche ciò che è stato sottratto alle generazioni precedenti. Ma penso che ci sia anche il pericolo di sovraccaricare la gioventù: coloro che prendono le decisioni sono politici di una certa età e dimostrano sempre più di non avere alcuna relazione reale con la popolazione. Diventa quindi frustrante per i giovani, perché i nostri eroi ci hanno tradito e sembra che siamo passati da una gabbia all’altra. E il mondo pare non accorgersi di cosa avvenga quaggiù.

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