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Alimentazione, la carne coltivata non è la soluzione

Alimentazione, la carne coltivata non è la soluzione

L’attuale modello di produzione alimentare, della carne in particolare, non è più sostenibile. La causa della sostenibilità ambientale va sostenuta, ma senza scorciatoie, modificando politiche e abitudini alimentari senza cercare […]

Pubblicato più di un anno faEdizione del 25 maggio 2023

L’attuale modello di produzione alimentare, della carne in particolare, non è più sostenibile. La causa della sostenibilità ambientale va sostenuta, ma senza scorciatoie, modificando politiche e abitudini alimentari senza cercare risposte solo nella tecnologia. Alcune associazioni ambientaliste si sono schierate a favore della carne coltivata con la motivazione del benessere animale e della lotta agli allevamenti intensivi.

La carne coltivata e le alternative ottenute da cellule vegetali colpiscono l’industria dell’allevamento, ma penalizzano anche chi alleva animali con rispetto e in contesti naturali, dando un contributo imprescindibile alla buona agricoltura e alla gestione dei territori. Se la carne coltivata prenderà piede, l’allevamento di piccola scala, già in estrema difficoltà, rischierà di scomparire e con esso razze animali locali, saperi legati all’allevamento, lavorazione della carne e formaggi di qualità. Un danno enorme per il patrimonio ambientale, sociale e culturale.

La coltivazione di carne in laboratorio prevede un minore uso di acqua e terra rispetto agli allevamenti intensivi, mentre è più difficile quantificarne le emissioni di CO2 e fare una valutazione dell’impatto futuro, inoltre gli impianti di produzione sono fortemente energivori.

Il metano rilasciato dagli allevamenti, inoltre, ha una permanenza in atmosfera significativamente più bassa dell’anidride carbonica prodotta dai bioreattori. Come ricorda Alison Van Eenennaam, esperta in genomica animale e biotecnologia nei sistemi di produzione agricola dell’Università di Davis in California, la natura ha già sviluppato un bioreattore perfetto alimentato a energia pulita (il sole), in grado di convertire la cellulosa presente nell’erba in proteine di alta qualità: i ruminanti.

Sono loro che pascolando svolgono un duplice servizio: nutrirci e mantenere il territorio in equilibrio. Una buona gestione dei pascoli è vitale per le nostre terre alte, che rappresentano più del 70% del territorio italiano. Il lavoro dei pastori, legato alla pulizia del sottobosco, al mantenimento dell’alveo dei torrenti e alla manutenzione delle opere idrauliche è decisivo per prevenire di alluvioni, frane e incendi.

Tornando alla carne coltivata, un altro punto cruciale è l’elenco dei finanziatori della ricerca, con un giro d’affari che nel 2021 ha toccato la cifra di 1,3 miliardi di dollari e che potrebbe diventare dieci volte più grande al 2030: da Bill Gates a Sergey Brin di Amazon a Richard Branson della Virgin Group. Ma anche JBS, Cargill e Tyson Foods.

Sono gli stessi responsabili della deriva dell’allevamento che, intravvedendo minacce all’orizzonte, investono sulla carne coltivata, impiegando brevetti e monopoli, cioè gli stessi schemi di business dell’allevamento intensivo.

La soluzione non va ricercata rifiutando l’allevamento tout court, ma cercando di riportarlo nell’alveo della sostenibilità, indirizzando le risorse economiche delle politiche agricole a chi mette in atto pratiche ecologicamente sostenibili. Educando a un cambio delle abitudini alimentari verso una riduzione del consumo di carne, scelta da allevamenti rispettosi dello spreco, dalla filiera alla scelta dei tagli meno pregiati.

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