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Alighiero Boetti e il libro di Agata

Alighiero Boetti e il libro di AgataUna fototessera con Alighiero Boetti e la figlia Agata, che scrive: «Prima di andare a scattare questa fototessera, avevamo trovato la regola del gioco: la foto sarebbe stata in bianco e nero, dunque lui in nero, io in bianco»

Nel «Gioco dell’arte», libro coloratissimo, la figlia di Alighiero Boetti descrive un lessico famigliare con cui riusciamo a penetrare in modo meno mentale nell’opera del padre: il ludico «cifrato» si apre così a nuovi orizzonti di senso

Pubblicato quasi 8 anni faEdizione del 20 novembre 2016

Te ne accorgi subito, quando ti cambia l’idea di un artista. Il momento in cui ti si accende in testa. Magari perché ti ci imbatti proprio quando – per una serie di coincidenze non programmabili – sei finalmente in grado di «vederlo». A me è capitato, per esempio, colla personale di Michelangelo Pistoletto, Da uno a molti. Come tutti conoscevo i Quadri specchianti, ne ammiravo l’agudeza così cool. Ma quell’eleganza la trovavo pure frigida, se non proprio mortifera. Finché quel giorno al MAXXI mi si rivelano il gioco sottile, l’umorismo imprevedibile di quel Pistoletto anni sessanta. A un certo punto, da uno degli Specchi, occhieggia una donna. Nuda e bellissima, di spalle, si volta verso di me con un sorriso. Appartiene a Graziella Lonardi Buontempo, quel sorriso ineffabile; ma è l’Eterno Femminino – quintessenza dell’intelligenza e dell’ironia – a guardarmi, ben più a fondo di quanto abbia mai fatto una donna in carne e ossa. Chi l’avrebbe mai detto che potesse essere così erotica, quell’arte «cerebrale»… Qualche tempo dopo, alla retrospettiva di Vettor Pisani al MADRE, trovo una conferma nelle splendide foto di Elisabetta Catalano durante la lavorazione dello Scorrevole: in cui una donna completamente nuda è legata da un collare-cappio a un cavo che scorre, appunto, in orizzontale. Mentre Pisani, tutto soddisfatto nel trench nero d’ordinanza, se ne sta accovacciato come un coboldo satanico, Pistoletto si avvicina incerto al corpo luminoso della modella, alza una mano, vorrebbe sfiorare la sua pelle… i suoi occhi, allagati di turbamento, sono il negativo perfetto – il contrappasso – di quello sguardo che aveva rubato a Graziella Lonardi. La donna scelta dal complice Pisani, per rimettere in scena la duchampiana Mariée mise a nu par ses célibataires che ossessiona entrambi, è sua moglie Maria.
A Monopoli mai
La stessa vertigine da turning point mi è venuta leggendo Il gioco dell’arte Con mio padre, Alighiero di Agata Boetti (Electa, pp. 288 a colori, € 24,90). Partito preso di Agata – prima figlia di Anne Marie Sauzeau e Alighiero Boetti, oggi direttrice dell’Archivio che porta il suo nome – è quello di raccontare l’opera paterna, sterminata e labirintica, non da un punto di vista analitico e intellettuale, come tutti finora, bensì intimo e famigliare. Ma non si pensi allo stereotipo del «padre affettuoso dietro la maschera del genio». Quello famigliare si rivela infatti, in queste pagine coloratissime, accesso tutt’altro che secondario al mondo di Boetti. E quella del gioco la sua dimensione privilegiata: si può immaginare sin dall’incontro con Anne Marie, nella frigida eleganza della Torino anni sessanta, ma che a partire dai Settanta, a Roma, trova appunto in Agata la compagna privilegiata. Contraintes tanto più severe, le loro, quanto più arbitrarie (fra i livres de chevet, gli Exercices de style di Queneau); giochi serissimi come possono essere solo quelli dei bambini molto intelligenti («Non mi leggeva libri per bambini. Non giocavamo a Monopoli»). Come dice Jean-Christophe Amman, Agata ci fa scoprire come, mai quanto in Boetti, «vita e arte siano intimamente legate». Non solo cosa mentale, la pittura, ma lessico famigliare: Agata, bambina, collabora al pensiero di suo padre; ci si specchia; lo sfida. E lui s’inorgoglisce, a batterla nel cimento, come farebbe un suo coetaneo.
Una rivoluzione copernicana rovescia l’idea di un artista catafratto in un cosmo autotelico, governato da cabale alfanumeriche che mi avevano forcluso, finora, in un’ammirazione fredda e sussiegosa. Solo un altro testo conoscevo, su di lui, similmente personale: quello – scritto all’indomani della morte, a soli 54 anni, di quello che qui si rivela il suo mentore – di un Marco Colapietro non ancora Tommaso Pincio (ora in Scrissi d’arte, L’orma 2015): «mi insegnò a guardare le cose in modo diverso o, per meglio dire, mi insegnò a vedere cose che fino ad allora erano sfuggite alla mia vista». È quanto fa ogni vero artista. Ma è vero alla potenza riguardo a chi alla visione, e ai suoi paradossi, ha dedicato tanti lavori – al pari forse del solo Giulio Paolini, suo gemello rovesciato. Bellissima, nel libro, la foto di Antonia Mulas che ritrae i due, al buio, di profilo uno di fronte all’altro, come nel ritratto dei duchi di Montefeltro di Piero della Francesca che affascinava Boetti. Il quale era tanto ossessionato dal tema del doppio da firmarsi, da un certo momento (dal ’72, proprio, in cui nasce Agata), «Alighiero e Boetti». Quest’identità di sintesi, scrive Colapietro e Pincio, «congiunge la parte intima del nome e quella sociale del cognome».
Ecco, il libro di Agata ci fa scoprire l’Alighiero «intimo» non dietro al «concettuale» Boetti ma insieme a lui – da lui inscindibile come lo Shaman nello Showman (e viceversa). Quando compone I sei sensi, nel ’74, ai cinque canonici Boetti aggiunge il pensare: ma dunque per lui il pensiero, appunto, è qualcosa di sensuale. Come gli altri del ciclo «in cifra» Biro punteggiati da virgole, quei pannelli azzurri sono picchiettati da punti bianchi. Racconta Agata che uno dei loro piaceri più grandi consisteva nello stendersi su uno dei tappeti arrivati dall’Afghanistan, che «ci sollevavano in aria e ci facevano viaggiare». È la prospettiva degli Aerei, sottili sagome bianche brulicanti nell’azzurro del cielo. Ma è anche l’«alphabet des astres» del Mallarmé di Un coup de dés n’abolira jamais le hasard (impaginazione e titolo «boettiani»: e un passo sul suo «merletto, nero su bianco, o bianco su nero, come nel cielo la notte, o nello spazio in cui sono tracciati i nostri sogni» è sottolineato da Boetti nella copia del più decisivo dei suoi livres, Corpo d’amore di Norman Brown). Indica il cielo stellato alla sua bambina, Alighiero: «tu vedi del disordine… mentre per un astronomo tutto ciò è molto chiaro». Nessuno, quanto lui, sapeva volare. Lo dice, con una delle felici coincidenze che lo deliziavano, il suo stesso nome: che, come quello dell’Alighieri per antonomasia, ha in sé l’aliger virgiliano. «Ali», proprio, suonava il suo nick ai tempi di Torino (e a Boetti piaceva, gli faceva pensare appunto a un aereo).
Quel maestro sufi
A questa felicità mentale, che per tante pagine respiriamo a pieni polmoni, fa da contraltare, alla fine, un improvviso presagio di morte. Pareva l’unico a non curarsene, Boetti: un maestro sufi gli aveva profetizzato che sarebbe morto solo l’11 luglio 2023. Intanto il ritmo di quell’inarrestabile dinamo mentale cresceva, però, parossistico. Agata racconta i momenti di spossatezza: «gli massaggiavo spesso la testa… lui chiudeva gli occhi e io cercavo il tasto “pausa” fra i suoi capelli». L’ultima opera licenziata da Boetti è una scultura in bronzo a grandezza naturale dal titolo Autoritratto (mi fuma il cervello). Così la descrive Pincio: «una mano alzata impugnava l’estremità di un tubo di gomma dal quale fuoriusciva un getto d’acqua che cadeva sulla testa di Alighiero, al cui interno era contenuto un meccanismo che scaldava il metallo quel tanto da far evaporare l’acqua non appena questa vi entrava in contatto». Il giorno del funerale, in quell’aprile crudele del ’94, il fumo dell’incenso evocava l’autoritratto premonitorio: «entrambi i fumi parlavano della stessa cosa, la sparizione di quell’afflato essenziale senza il quale un organismo vivente e pensante ripiomba allo stato di semplice materia». Ma, grazie a sua figlia, conosciamo ora la storia straordinaria di come la materia di quel corpo d’amore, per tanti anni, fosse rimasta accesa dalla luce delle idee: dalla sostanza sottile del genio.

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