Cultura

Alice Rowlands che fluttua tra meraviglia e terrore

Alice Rowlands che fluttua tra meraviglia e terrore

SCAFFALE «La ragazza che levita», della scrittrice inglese Barbara Comyns. Dopo «Chi è partito e chi è rimasto», Safarà traduce il secondo degli undici romanzi editi

Pubblicato circa 5 anni faEdizione del 20 agosto 2019

Nell’etimo della parola sospensione risuona il significato di «elevarsi dalla terra». Nell’uso comune, stare in sospensione segna l’incertezza, terra di mezzo dell’indecisione. È però in quell’elevarsi dal dato dell’esistenza materica che, andando a stanare qualche ulteriore indizio, si scopre che la sospensione attiene allo stare in attesa, in attenzione. Alice Rowlands ha diciassette anni e sa bene cosa comporti contrattare la durezza della sua condizione con la libertà che tanto desidera. Lo immagina talmente bene che un giorno si solleva, letteralmente, da terra. Malridotta, come gli esseri viventi che la circondano, è maestra di attenzione, di puntualità di sguardo sul reale, per questo si eleva. Ai primi del Novecento, in età edoardiana in una campagna della periferia londinese quella manciata di case, a incorniciare viottoli disadorni, la scruta ogni giorno per poi fare ritorno all’incubo della propria. Alice è la giovane protagonista di «un assoluto capolavoro. Strano, inquietante e gotico». Questo il parere di una grande scrittrice come Sarah Waters a proposito del romanzo The Vet’s Daughter di Barbara Comyns, ora tradotto da Cristina Pascotto per i tipi di Safarà. Composto nel 1959, La ragazza che levita (pp. 156, euro 16), a differenza dei suoi precedenti e successivi, ha ottenuto buoni riscontri critici, salutato con ammirazione da Graham Greene e Jane Gardam, accostato poi ai lavori di Angela Carter e Stephen King.

ALICE è la figlia di un veterinario – questa una parte della sua condizione terrestre originaria. E sa levitare – questo il suo potere indicibile. Perché lei fluttua, principalmente nel suo letto e prima di cadere nel sonno. Tuttavia, il terrore che permea l’ordito non ha niente a che vedere con i sogni romantici di una adolescente, è invece opaco e vischioso, appartiene alla casa genitoriale in cui la incontriamo per la prima volta. Suo padre, individuo spregevole, urla e abbandona manguste in cucina, allo stesso modo detesta ogni forma senziente indisponibile a essere vessata, più che un veterinario ricorda un vivisezionista dai tratti nazistoidi; nessun interesse per la sua unica figlia né per sua moglie, assalita da una malattia che la porterà via quasi subito. In uno sfondo simile, l’elemento animalesco scalpita dentro le mura domestiche: scimmie, pappagalli, cani e gatti, assumono sopra se stessi la sofferenza e l’agitazione che né Alice né sua madre si autorizzano ad agire interamente. La sventura è minaccia il cui pericolo la ragazza patisce sempre con candore, descrivendone i contorni con sorprendente leggerezza.

La stessa di Barbara Comyns, il cui debutto letterario arriva all’età di quarant’anni con Sisters by the River (1947), capace di costruire l’orientamento della sua prediletta sul circostante con fedeltà e senza giustapposizioni inutili, nominando la libertà come un morso a mezza bocca, simile alla lingua dei segni attraverso cui Alice comunica con la sua amica sordomuta Lucy – probabile elemento autobiografico visto che la madre della scrittrice in seguito a una gravidanza aveva perso l’udito. E ulteriori potrebbero essere le consonanze con la vita di Comyns, artista riparata, scomparsa nel 1992 con all’attivo undici romanzi e che, dopo il divorzio dal suo primo marito, per campare se stessa e i suoi figli piccoli, ha allevato barboncini nelle periferie londinesi e venduto oggetti di antiquariato. Alice Rowlands, come Barbara Comyns, non è una ingenua, riporta piuttosto alla semplicità la consapevolezza di una claustrofobia quotidiana. Insegna che la stolidità del male – arrivato a ghermirla ancora – può essere compensata dal bene, elemento fantasticato che rende maturi gli eventi. E che scoprirlo significa già aver vissuto a sufficienza, non importa per quanto. Scampata alla violenza che da sempre l’ha circondata, Alice percorre il trauma in una lenta imbastitura da rammendare e interrogare. Infine fluttua, una due e poi tante altre volte. Non vola, quella è faccenda della mente, quanto invece si solleva e realizza l’impossibile. Sua intenzione è non soccombere al dolore che l’essere umano è disposto a infliggere ai propri simili. Diversa dall’esperienza estatica, non è neppure la ricerca di interlocuzione tranne quella con il soffitto della propria stanza. L’esercizio di svuotamento è dall’unico spazio di proprietà: il suo corpo, lo stretto necessario. Stretto dall’esile incandescenza di diciassettenne, necessario perché è diaframma incauto ed esposto allo sguardo altrui. Forse un meccanismo psichico di dissociazione per cui si allontana e si separa da sé. Il suo corpo, in cui a vario titolo ha cercato di dimorare la violenza, diventa una rivendicazione di delicatezza che cerca spazi più ampi a cui rivolgersi.

PENSA, BARBARA COMYNS, ci sia una comunanza nello squadernare la soglia del sonno e l’allerta notturna che non consente di addormentarsi ma di stare a mezz’aria. Dai confini inglesi di inizio Novecento, molte sono le sorelle di Alice – letterarie e in carne e ossa – sospese e in attenzione che prima di lei e fino ai nostri giorni per non accettare l’ingiustizia su se stesse hanno inventato un mondo a propria misura. Sono l’arrovello insonne di rigirarsi, nell’inciampo tra gli scarti del disamore c’è un filo che le lega tutte. E non è l’oppressione patriarcale, bensì l’essere cresciute nonostante tutto, insieme ad altre e grate a se stesse, anche quando non era previsto accadesse, anche quando poi un giorno forse troppo presto sono andate via. Espandere i propri confini, sentirne il fervore, non è allora una magia, nessuna erotica divina per Alice. La ragazza che levita è la storia di un prodigio, negli occhi di chi le sta vicino significa poco più di un fenomeno da baraccone da mettere a reddito come nei circhi di animali. Per chi invece legge il romanzo è la parabola del vivere sgangherate eppure mai imperdonabili. Il pregio di Barbara Comyns sta nell’aver dato parola alla sedizione di fare giustizia di sé stesse, rivelando che talvolta ciò si traduce in un azzardo antigravitazionale. Troppo aereo dunque per durare a lungo, eppure talmente impossibile nel suo fulgore da essere l’unico antidoto per non rimanere soffocate dalla realtà.

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