Alice Munro, un silenzio senza risposte
«Vivere una vita non è attraversare un campo»: così si chiude, nella traduzione di Pietro Zveteremich, Amleto, una delle poesie che si trovano alla fine del Dottor Živago di Boris Pasternak. Ed è una frase, quasi un verso (o se vogliamo un proverbio), che lo scrittore Paolo Nori cita spesso, fuori e dentro i suoi libri, come qualcosa che lo tocca e lo commuove, soprattutto nei momenti complicati e dolorosi. Sarà forse un accostamento indebito, ma queste parole – così semplici, così vere – rimbombano nella testa da giorni, alla lettura dei commenti che hanno fatto seguito a un intervento pubblicato nel fine settimana dal quotidiano canadese Toronto Star e rimbalzato rapidamente sui media di tutto il mondo.
Di cosa si tratti, lo dice in modo eloquente il titolo: Il mio patrigno ha abusato sessualmente di me quando ero una bambina. Mia madre, Alice Munro, ha scelto di rimanere con lui. A firmare il testo è Andrea Robin Skinner, la figlia più giovane della scrittrice canadese premio Nobel 2013, che ripercorre le varie fasi di questa storia straziante cominciata quasi mezzo secolo fa, nell’estate del 1976, quando lei aveva nove anni, e mai davvero conclusa, in un intrico sempre più fitto di silenzi, incomprensioni, riconoscimenti mancati, parziali disvelamenti.
A lungo Munro fu tenuta all’oscuro di questi approcci del secondo marito, il geografo Gerald Fremlin, ma quando nei primi anni Novanta la figlia le scrisse una lettera per rivelarle quanto era accaduto, la scrittrice decise, dopo un breve distacco, di restare accanto all’uomo. E così fece fino alla morte di lui, nel 2013, anche se una decina di anni prima, all’indomani di un’intervista sul New York Times nella quale Munro dichiarava il proprio amore per Fremlin, Skinner si decise a sporgere denuncia e l’uomo ammise la sua colpevolezza (aveva un’ottantina d’anni, fu condannato con la condizionale).
In quel periodo la notizia rimase all’interno di una cerchia molto ristretta: l’autrice di Nemico, amico, amante e di In fuga era già famosa, ma non la celebrità mondiale che sarebbe diventata dopo il Nobel, e comunque ci fu una sorta di rete di protezione da parte sua, come dei familiari e di quelli che la conoscevano da vicino, incluso il suo biografo, Robert Thacker, che nel 2005, contattato da Skinner, decise di non inserire la vicenda nel suo Alice Munro. Writing Her Lives e che l’altro giorno ha dichiarato al Washington Post: «La mia non era una di quelle biografie in cui si racconta tutto, e ho vissuto abbastanza a lungo da sapere che nelle famiglie succedono cose di cui non si vuole parlare e che si desidera restino in famiglia».
Ma fino a che punto, nella cultura contemporanea, è possibile – e giusto – mantenere segreti i vecchi «panni sporchi»? E in quale misura può cambiare la nostra lettura dell’opera di Munro, ora che sappiamo che un racconto come Vandali potrebbe forse nascere da un’esperienza più ravvicinata di quella che avevamo immaginato o che desidereremmo? Tante le risposte, e diverse. C’è chi, come Joyce Carol Oates, sostiene che queste rivelazioni ci permettono di vedere meglio come nei testi di Munro «spesso uomini terribili vengano valorizzati, perdonati, riabilitati», chi – per esempio la giornalista Marsha Ledermann – è deciso a non leggere mai più una riga della scrittrice canadese, «che ha tradito noi e la sua stessa eredità», e chi mette in guardia contro una visione semplicistica e manichea: è il caso di Clementine Morrigan, autrice di libri sul trauma e sull’incesto, che in un’intervista a Times Colonist invita i lettori «ad accettare che Munro è stata una scrittrice immensa e può avere causato un dolore enorme a sua figlia».
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