«Che cosa può sperperare una figlia? Ha un solo patrimonio: il suo dover essere. Brava, buona, gentile, ubbidiente, vergine eccetera. Questo è il patrimonio di famiglia» – così affermava Alice Ceresa, in una conversazione con Maria Rosa Cutrufelli, pubblicata nel 1991 sulla rivista Tuttestorie. E fu proprio intorno alla prodigalità di una figlia, al suo sperpero volontario dell’eredità paterna e patriarcale, che Alice Ceresa diede vita a una delle più grandi invenzioni del Novecento italiano: La figlia prodiga, romanzo del 1967, premio Viareggio Opera Prima, che con la sua tutt’altro che innocua copertina rosso magenta inaugurava la collana «La ricerca letteraria» della casa editrice Einaudi, a cura di Guido Davico Bonino, Giorgio Manganelli e Edoardo Sanguineti. Ora, nel centenario dalla nascita della scrittrice svizzera, La figlia prodiga (pp. 234, euro 20) torna finalmente in libreria, grazie alla casa editrice La Tartaruga, con la prefazione di Laura Fortini.

PER LA LETTRICE E IL LETTORE che si trovino ad aprire questo volume per la prima volta non mancherà una certa dose di stupore dinanzi all’inconsueta organizzazione grafica del testo che – come rilevava Teresa de Lauretis nel 1996 – «separando le proposizioni secondo le scadenze del parlato, dà alla sua prosa l’aspetto visivo di uno spartito verbale». Chi invece abbia già incontrato e amato il capolavoro ceresiano, non potrà che essere confortato dal ripristino della redazione rispondente all’ultima volontà dell’autrice che con i suoi «a capo poco ortodossi» si staglia sulla pagina «potente e prepotente» – parole di Fortini, queste, che alla «poetica della prodigalità» aveva già dedicato un saggio all’interno di Abbecedario della differenza. Omaggio ad Alice Ceresa (nottetempo) curato assieme ad Alessandra Pigliaru, nel 2020.

In poco più di duecento pagine, costellate da spazi bianchi, La figlia prodiga declina su «un femminile incognito» la celebre parabola biblica del figlio scialacquatore, precisando, però, fin da subito, che «una figlia prodiga non può solo essere la trascrizione grammaticale in termini femminili del suo omonimo maschile». Del resto – prosegue Ceresa, con chirurgica e implacabile ironia – «si vedono male le figlie sperperare patrimoni paterni, precipitare nella desolazione una casa per via della loro defezione e riguadagnare infine il posto d’onore nella famiglia previamente abbandonata per il semplice fatto di avervi fatto ritorno».

Per una figlia prodiga che abbia l’improvvida idea di voltare le spalle alla casa del padre, e che si metta a dilapidare il suo patrimonio fatto di codici, norme, tradizioni, non c’è perdono, né reintegrazione possibile. Dissipando virtù e coercizioni, precetti e aspettative, la figlia prodiga dissesta dall’interno l’«estrema cellula amministrativa» della società – così Ceresa definiva la «Famiglia», nel suo Piccolo dizionario dell’inuguaglianza femminile (pubblicato postumo, sempre da nottetempo, nel 2007 e nel 2020, a cura di Tatiana Crivelli).
Soggetto imprevisto della Storia, «personaggia» eccedente ed eccentrica rispetto a qualsiasi canone e tradizione, la figlia prodiga è eversiva, disobbediente, immorale, e lo è fin dall’infanzia, quando – così racconta l’autrice – con sorprendente precocità e «rara protervia», già mostra i segni di «una primissima autonomia di pensiero» agli occhi sconcertati dei propri genitori, i quali, nel tempo, saranno costretti a «considerare la loro figlia una figlia particolare e non sottoponibile alle regole delle figlie in generale».

FIGURA DELLA DIFFERENZA, e per ciò stesso corrosiva delle strutture date, la figlia prodiga scantona e non aderisce a nessuna ipotesi di normalità, né si cura dell’intima e inesorabile disintegrazione del nucleo patriarcale che lei stessa, con la propria deviazione, svela ed accelera.
«Creatura personalissima, segreta e autonoma», indisponibile com’è a colludere col potere costituito, la figlia prodiga non ha ossigeno da donare, bocca a bocca, al corpo asfittico e periclitante del patriarcato, che chiede ubbidienza per essere salvato.
Certo, rinunciare al proprio «posto codificato» nel mondo avrà le sue conseguenze: dilapidando gli attributi, le prerogative, il destino che la società aveva apparecchiato per lei, la protagonista di Alice Ceresa non potrà che restare a mani vuote. Eppure, sarà ricca di sé.

Questo perché, in fondo, la prodigalità è un lusso: «porsi al di fuori del patriarcato non costituisce passaporto utile per l’attestarsi nel mondo» – scrive ancora, assai efficacemente, Fortini nella sua prefazione – «ma fa della figlia prodiga figura di libertà lussuosamente colma di vita, che va per il mondo propositivamente difettando per eccesso di soggettività».
Nell’ultimo capitolo del romanzo, dal titolo «La rivendicazione della prodigalità», Ceresa mette ulteriormente in chiaro questo aspetto della sua personaggia «contraddicente e opposta alla norma»: la figlia prodiga sa benissimo di poter vivere «nella norma», ma sceglie consapevolmente «di passare il proprio tempo/ a usare le proprie forze/ per fare il contrario».
Si tratta di una decisione che non nasce unicamente dalla necessità, ma da una precisa, ricercata, sistematica, volontà di tradimento nei confronti della tradizione che – come risulta chiaro dalla radice comune dei due termini – è sempre anche una ritrasmissione/riconsegna creativa di ciò che è stato tràdito.

IN QUESTO SENSO, tanto l’opera di Ceresa, quanto la sua protagonista, tradiscono norme e codici – letterari, esistenziali – ma nell’atto stesso di farlo, li rinnovano dall’interno, senza temere la propria transitoria o definitiva condizione di diseredati.
Da questo punto di vista, il tradimento della forma romanzo, così come quello del genere sessuale e del ruolo sociale – ossia dell’insieme di disposizioni e princìpi che fanno di un romanzo un buon romanzo, e di una figlia una buona figlia – sono condotti dall’autrice e dalla sua protagonista con irriducibile determinazione, ma anche con irresistibile ironia e «forte vitalità».
E se è vero che gli apparenti agi, e le annunciate macerie, della casa paterna vengono lasciati alle spalle dall’ingrata figlia prodiga, che non volta lo sguardo indietro, è pur vero che la sua traiettoria eccentrica attraverso il deserto della nullatenenza traccia in terra una linea più viva e più vera di tutto ciò di cui ha dovuto e voluto abbandonare.
«Si potrebbe pensare alle figlie prodighe come alle curiose specie vegetali e animali che abitano il deserto, che nonostante la difficilissima possibilità di sussistenza trovano comunque il modo di sopravvivere e vivere una pur vulnerabile e, nonostante ciò, comunque fortissima esistenza», scrive ancora Fortini, a cui peraltro si deve la pubblicazione della voce inedita del Piccolo dizionario dell’inuguaglianza che Ceresa dedicò al «Deserto».

IMPOSSIBILE non riandare con la mente al mito della Gorgone, che pur decapitata e tenuta in un sacco dall’eroe «civilizzatore» Perseo, durante una trasvolata sul deserto libico perde gocce di sangue, e a ogni goccia fa nascere una creatura, rettile o vegetale, che popolerà quei luoghi inospitali.
Novella Gorgone, «sorridente e sovversiva» come la Medusa di Hélène Cixous, la figlia prodiga si sottrae al destino tragico dell’antenata lontana, e se prende la via del deserto – tutta intera – lo fa perché lo sceglie.
Al suo passare, meravigliose schiere di piante resistenti – euphorbie, cactus, artemisie – prendono vita, e innumerevoli esemplari di anfibi respirano, «distillano», e brulicano un palmo sotto la sabbia.
Mai sperpero fu più creativo.