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Ali Asgari per le strade di Tehran

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Intervista Un nome nuovo del cinema iraniano premiato in numerosi festival presenta il suo nuovo corto «La bambina» alla Mostra nella sezione Orizzonti

Pubblicato circa 10 anni faEdizione del 30 agosto 2014

Ha già vinto ben 75 premi con il suo corto More than two hours, il giovane regista iraniano Ali Asgari, l’ultimo premio lo ha ritirato all’inizio di agosto al Festival di Noci (Bari), il festival specializzato nel breve formato, dove lo abbiamo incontrato. Ali Asgari sarà a Venezia in concorso a Orizzonti con il corto The Baby (La bambina). Attraverso la spasmodica ricerca di una soluzione a gravi problemi legati alla vita quotidiana delle sue protagoniste crea una rete di aspettative, domande e riflessioni che riportano il suo cinema all’interno delle problematiche del suo paese con un filtro stilistico essenziale, scabro di parole. Tutta l’emozione si sviluppa nel ritmo del racconto. Asgari parla molto bene l’italiano, vive a Roma da ormai cinque anni e non ha potuto accedere al Centro sperimentale perché superava di pochi mesi la data stabilita dal bando. Così si è iscritto alla facoltà di lettere. Chissà se dall’Italia ha imparato anche l’arte di muoversi per svicolare problemi di censura, ma probabilmente questa è una dote di ogni buon regista in qualunque parte del mondo.
In More than two hours (Più di due ore) un ragazzo e una ragazza passano nella notte da un ospedale a un altro, da uno pubblico a uno privato alla ricerca di un medico che fermi l’emorragia che è intervenuta a una ragazza: la risposta è sempre la stessa, occorre il certificato di matrimonio, o la presenza dei genitori altrimenti l’intervento è considerato fuorilegge. Ma i due ragazzi convivono ed è impossibile parlare di questo ai genitori di lei che vivono in una zona arretrata del paese e mai potrebbero accettare una situazione del genere. Il finale del film mostra un senso di panico sospeso.
Come riesci a entrare così in sintonia con un personaggio femminile?
Sono il più piccolo di cinque sorelle, sono sempre vissuto a contatto con tutti i loro problemi e le loro confidenze, in più il mio lavoro è frutto della collaborazione con una sceneggiatrice, Farnnosh Samadi. Lei studia all’Accademia delle Belle Arti, anche lei è regista. Lavoriamo insieme da tre anni e ci confrontiamo costantemente su idee diverse. È lei a darmi consigli sulle tematiche femminili. Ci sono errori dal mio punto di vista maschile che lei può correggere. Come ad esempio, nel film, il concetto di verginità, un concetto legato alla femminilità che non mi faceva capire bene quale potesse essere la situazione. Così anche per quanto riguarda i dialoghi. È stata lei a raccontarmi questa storia, capitata a una sua amica che l’ha chiamata di notte dall’ospedale. In Iran essere fidanzati è legale, uno status espresso da documenti. Poi altra cosa sono i documenti del matrimonio
Sarebbe bello realizzare una trilogia dai tuoi corti, visto che anche il primo film parla dei problemi di una bambina
Si intitola Barbie, ma avevamo pochi mezzi e il risultato tesnico non è tale da assemblarlo agli altri due. Probabilmente sarà l’extra di un dvd. È la storia di una bambina di sette anni che deve cominciare la scuola e va con la mamma a comprare l’occorrente. Capisce solo allora che per andare a scuola dovrà mettere il velo e lei che ha i capelli molto belli è disperata. È il primo impatto con la società che pone limitazioni nella vita quotidiana già quando si è piccoli. Il titolo Barbie è il simbolo della bellezza perfetta, lei vuole avere lo zaino di Barbie. C’è una Barbie iraniana, si chiama Sara».
Di cosa parla il film selezionato a Venezia?
I genitori di una ragazza stanno arrivando a trovarla da fuori città, ma lei ha avuto da poco una bambina e deve assolutamente affidarla a qualcuno perché non vengano a saperlo, perché non è sposata. Cerca così di trovare una soluzione nel poco tempo che le rimane. Non è la stessa attrice di More than two ours, ma anche lei quindi, come l’altro corto è una studentessa che vive lontano dalla sua città. I genitori vivono lontano da Teheran che è una città moderna rispetto alle altre città, è impossibile metterle a confronto. Quei luoghi lontani sono quelli che mostra Kiarostami nei suoi film. Lui diceva che girava in esterni perché «se faccio un film e devo entrare nella casa della protagonista, non posso far vedere una donna con il velo in casa, sarebbe assurdo». Anch’io giro fuori dalle case, le mie storie sono sempre ambientate per le strade, per me è più interessante. A Teheran puoi trovare tante storie, è una città moderna e puoi mettere in luce il conflitto tra la vita di città e le consuetudini della tradizione. In The baby, la protagonista vuole essere emancipata, ma non ha il coraggio di dire ai genitori che ha appena avuto una bambina. E il titolo indica sia la neonata, sia lei che forse è ancora bambina.

Qual è il tuo rapporto rispetto ai famosi cineasti iraniani?
Il cinema iraniano parla sempre di problemi sociali perché è un paese ricco di queste problematiche. Fai questo tipo di film senza neanche rendertene conto, poi questo tipo di film diventa subito politica. Questo è il cinema che il mondo conosce dell’Iran, un cinema critico contro il governo. È stato interessante proiettare More than two hours in diversi festival perché non avevo fatto caso prima come in Europa questo tipo di problemi esistesse ancora, anche se solo nei paesini. È inevitabile il rapporto con la vecchia generazione di cineasti, cerchiamo di non seguirla, ma lo facciamo anche inconsciamente. Sono i nostri maestri, abbiamo studiato nei workshop tenuti da loro.
A chi di quei maestri ti senti più vicino?
Farhadi, Panahi, Kiarostami, a me però piace ambientare i film a Teheran, mentre nei loro film vediamo sempre campagne. Io sono nato a Teheran e sono sempre vissuto nel traffico, tra la gente. In Iran ci sono grandi problemi ma altrettanto grande è la voglia di andare avanti, c’è una popolazione molto aperta che vuole progredire, studiare, tanto che si lotta per avere il Phd, ci sono solo pochi posti. Abbiamo un governo religioso e per questo emergono i conflitti e abbiamo tante storie da raccontare. Rispetto a Siria, Arabia, Iraq la nostra vita culturale è molto più ricca, c’è voglia di scrivere, di fare film, teatro. Ad esempio solo quest’anno in Arabia Saudita hanno fatto il loro primo film.
Incontrate problemi per girare?
A noi non serve il supporto economico, ci interessa che non ci creino problemi. L’ostacolo maggiore è che non ci sono luoghi per le proiezioni. Presentano i film all’estero per questioni di rapporti internazionali. Tutti i maestri sono ostacolati, lo stato è contro i registi indipendenti. Mahmalbaf che apre Orizzonti è negli Usa da 5 anni e non riesce più a fare film belli come prima. Il problema è che per fare un film non bisogna essere arrabbiati, bisogna mantenere la calma.

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