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Alghero oltre il campo, liberati tutti i Rom

Alghero oltre il campo, liberati tutti i Rom/var/www/ilmanifesto/data/wordpress/wp content/uploads/2015/03/17/18soc alghero campo rom – Archivio Nuova Sardegna

Reportage Con i soldi dell’Unione europea il comune catalano chiude il campo nomadi e dà il via a un progetto di integrazione che diventa un modello per tutti. Aperto trent’anni fa il centro di Arenosu spianato dalle ruspe. 12 famiglie vanno a vivere in città, uno schiaffo al razzismo

Pubblicato più di 9 anni faEdizione del 18 marzo 2015

Che cosa hanno sentito quando i denti d’acciaio di una ruspa hanno ridotto in macerie il luogo dove avevano vissuto per trent’anni? Lì erano arrivati quando i loro figli erano piccoli. Lì erano diventati vecchi. A cercare scampo tra le baracche avevano visto arrivare altri come loro, altri romà, in fuga da una guerra schifosa. Case di lamiera e roulotte nel folto di una pineta, con il mare a due passi che fa salmastro il vento. Vita da nomadi in un angolo lungo la costa che i gagé hanno chiamato Arenosu, perché la terra rossa del sottobosco è sabbiosa e quando piove si trasforma in un fango che sembra volersi divorare tutto.

Ho pensato ai vecchi romà quando sono andato a vedere ciò che è rimasto del campo nomadi di Fertilia, piccola frazione di Alghero, sgomberato il 29 gennaio scorso. Ho pensato ai ricordi, buoni e cattivi, che i vecchi romà hanno lasciato sotto le rovine, quando ho visto il lavoro che avevano fatto le ruspe mandate dal Comune. Tutto è stato raso al suolo; restano solo lamiere contorte, cocci, taniche arrugginite. Era appena piovuto e il fango era lì, sotto i resti di una scaletta che doveva portare all’ingresso di una baracca, intorno a una piccola spianata sulla quale erano ancora impressi i segni delle gomme di una roulotte. Dove fino a poco tempo fa vivevano dodici famiglie, cinquantuno persone di cui trenta bambini, ora non c’è più niente. L’ombra dei pini custodisce solo il silenzio.

Fine dell’esclusione

Non lo hanno subìto, però, i romà di Fertilia, lo sgombero del loro campo. Niente polizia, niente carabinieri, nessuno sgombero coatto. Rom in italiano si traduce «uomo libero». I romà dell’Arenosu hanno liberamente deciso di lasciare quel posto per andare a vivere tra i gagé, in città, ad Alghero.

Lo hanno fatto quando il sindaco, Mario Bruno, ha trovato a Bruxelles i soldi di un fondo comunitario che finanzia progetti di inserimento dei nomadi. Chiudere i campi e far vivere i romà come tutti gli altri. Fine della segregazione abitativa che fa tutt’uno con l’emarginazione, l’esclusione, il razzismo. Con i denari della Ue, Bruno (che è diventato sindaco alla guida di una lista civica vittoriosa, alle elezioni, sia sul centrosinistra sia sul centrodestra) ha aiutato i romà a trovare un tetto in mezzo ai gagé. Decisivi i finanziamenti europei, ma altrettanto decisive altre due cose. La prima è il ruolo giocato dalla Associazione contro l’emarginazione (Asce) e dalla sua presidente, Irene Baule. La seconda è la funzione di garante che presso gli algheresi che hanno accettato di locare abitazioni ai romà si è accollato il Centro di ascolto della Caritas di Alghero.

«Non è stato per niente facile – racconta Irene Baule – Verso i romà c’è molta diffidenza. E anche razzismo; usiamola, la parola. Ma alla fine siamo riusciti a far capire che le paure erano del tutto infondate». C’è voluta pazienza perché nel muro di ostilità preconcetta si aprisse una breccia. I romà dell’Arenosu sono di origini bosniache e di religione musulmana. Il campo è stato aperto nel 1984. Negli anni Novanta è arrivata una seconda ondata di famiglie che fuggivano dalla guerra dei Balcani. Le baracche erano alle porte di Fertilia, un piccolo borgo costruito alla fine degli anni Trenta dall’«Ente di colonizzazione ferrarese», istituito da Mussolini per dare una risposta alla fame di terre dei contadini della Bassa: una delle «colonizzazioni interne» volute dal regime. Nel secondo dopoguerra a Fertilia sono arrivati i profughi dell’Istria e della Dalmazia.

Sono loro, i più vecchi, che ora rappresentano, insieme con figli e nipoti, la maggioranza dei duemila abitanti di Fertilia. Strano incrocio di culture intorno all’Arenosu: Alghero è una città di fondazione aragonese gemellata con Barcellona, la gente parla catalano; a Fertilia nei bar e nelle piazze suona, stretta e rapida, la lingua dei giuliani; in entrambi i luoghi, quasi a fare da contrappunto, le cadenze antichissime del romanì. «Con i giuliani c’erano un sacco di problemi», dice Luca Hadzovic, nato nel campo nel 1984, artigiano del rame che lavora nella raccolta di materiali ferrosi e che dall’Arenosu è venuto via con la moglie e tre bambine.

«Potrei raccontare diversi episodi di intolleranza di cui io e altri romà siamo stati vittime. Noi però abbiamo sempre cercato di parlare con loro. Di fare capire. Io, tutte le volte che qualcuno si alzava su contro di noi, gli ricordavo che anche loro, i dalmati e gli istriani, erano arrivati profughi da terre non lontane da quelle che anche noi abbiamo dovuto lasciare. Ora però ho una casa, e questa è la cosa importante. Non è stato un gioco abbandonare il campo. Era la nostra dimora comune. Lì avevamo memorie e affetti. Lì abbiamo vissuto, abbiamo celebrato nascite e morti, matrimoni e feste. Per gli anziani, soprattutto, è stato complicato. Ma è meglio così. Meglio chiudere il campo. Che noi abbiamo una lingua e una religione diverse non significa che non possiamo essere cittadini come gli altri. Io sono cittadino algherese, sono cittadino italiano esattamente come quelli che ora sono i miei vicini di casa. Ci hanno accolto bene, i vicini di casa e gli altri, ad Alghero. Il progetto del Comune è una buona cosa. È il futuro, per me che ho trent’anni, ma di più per le mie tre figlie, che hanno diritto a una vita dignitosa. Il campo è il passato, dobbiamo continuare a lavorare perché l’integrazione diventi una realtà, ad Alghero come dappertutto».

Non è che al progetto del Comune e dell’Asce non ci siano state resistenze. Quando s’è saputo che Bruno e Baule avevano trovato casa per le famiglie del campo di Fertilia, i giornali locali e la segreteria del sindaco sono state subissate di email e lettere di algheresi che protestavano indignati: «Come, tanti di noi non hanno un alloggio e Bruno, invece di preoccuparsi dei suoi concittadini, trova un tetto ai nomadi?». «Ecco vede – commenta Luca – noi non siamo cittadini. Prima vengono i cittadini veri, gli algheresi, e poi noi, i nomadi. Ma io sono cittadino come gli altri, ho gli stessi diritti; non voglio togliere niente a nessuno e però non voglio che niente sia tolto ai cittadini romà. Per fortuna chi ragiona così alla fine è una minoranza. Alghero ha risposto in maniera diversa. Abbiamo fiducia».

È solo il primo passo

Bruno conferma: «Sì, le tensioni ci sono state. Ma poi hanno prevalso il dialogo e la ragionevolezza. Le risorse finanziarie per i romà erano stanziamenti europei vincolati, che potevamo spendere solo per il progetto di integrazione. Per l’edilizia popolare i soldi li abbiamo trovati da un’altra parte: sono arrivati dalla Regione Sardegna. Credo che lo spirito di accoglienza sia prevalente. Bisogna però creare le condizioni perché si concretizzi. Ciò che abbiamo fatto è solo il primo passo. Ora bisogna sostenere l’integrazione con un lavoro quotidiano, che faremo con l’Asce e con l’apporto prezioso dei nostri servizi sociali».

La commissione tutela dei diritti umani del Senato ha recentemente approvato una risoluzione che chiede il superamento dei campi nomadi e impegna il governo ad attuare l’insieme di misure previste dalla «Strategia nazionale di inclusione di rom, sinti e cammninanti» approvata tre anni fa su sollecitazione dell’Ue. «È la strada – dice Irene Baule – che l’Asce indica da sempre. Ad Alghero è stato possibile muoversi finalmente in questa direzione per una serie di circostanze favorevoli. Tutte, però, riproducibili altrove. Anche dove i campi nomadi sono molto più grandi di quello di Fertilia, a Roma ad esempio o in altre grandi città, è possibile mettere in atto pratiche amministrative e strategie di coinvolgimento sulla base delle quali avviare il processo virtuoso che in Sardegna s’è dimostrato possibile. La nostra esperienza è un modello. Una realtà concreta che toglie ogni alibi al mantenimento delle vergognose pratiche di segregazione dei romà».

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