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Alfredo Giuliani, un errante alla ricerca della forma

Alfredo Giuliani, un errante alla ricerca della formaGianfranco Baruchello, «E credeva che il metadone fosse vitamina B», 1978

Figure del Novecento Catullo, Lucrezio, Murasaki, Ben Jonson, Keats, Foscolo, Manzoni, Flaubert, Mallarmé, Bloy, Guimarães Rosa... e soprattutto Leopardi. Gli articoli letterari 1977-’98 di Alfredo Giuliani raccolti in «La biblioteca di Trimalcione», Adelphi

Pubblicato più di un anno faEdizione del 12 febbraio 2023

La vulgata dominante su Alfredo Giuliani, ancora vigente, afferma che egli fu più saggista che poeta. Per fortuna un recente convegno all’Università di Pescara, organizzato da Ugo Perolino (suo allievo ed esegeta), ha ricollocato la figura di Giuliani, venuto a mancare nel 2007, in una dimensione nuova, e molti interventi hanno sottolineato la profonda indissolubilità fra le parti che compongono la sua opera. L’editore Adelphi aveva ristampato nel 2017 Il giovane Max, che Giuliani stesso definì «romanzino» e che tutto era meno che un romanzo così come siamo abituati ad averne nozione. E ora si può leggere, finalmente, la raccolta di saggi intitolata La biblioteca di Trimalcione, cui Giuliani attese per molti anni e della quale sono stato testimone diretto, avendo letto e soppesato insieme a lui lo scartafaccio. Adesso, per la cura di Andrea Cristiani, il libro ha avuto una forma e vede la luce (Adelphi «Saggi. Nuova serie», pp. 392, euro 35,00).

È proprio il concetto di forma che accompagna ad ogni passo l’opera di Giuliani. Non appena si trova il bandolo, la matassa si ingarbuglia ancora di più. Ma non incontreremo dichiarazioni di poetica o teorie letterarie di sorta in queste pagine. Sembra paradossale, se si pensa che egli fu tra i fondatori del Gruppo 63 e vergò di suo pugno la Prefazione all’antologia dei Novissimi, 1961. Muovendosi all’interno di questo paradosso, non si darebbe alcuna presenza di Giuliani nella poesia e nella riflessione critica senza un implicito riferimento alla coscienza delle loro implicazioni formali. Ma c’è di più. Al tempo stesso, poesia e saggistica in questo autore sembrano rispondere a una sorta di innocenza che redime la mole di erudizione e consapevolezza. Quando, ancora diciannovenne, andai a trovarlo a casa sua per portargli il primo fascicoletto di versi, ero ovviamente ansioso di parlare con lui di poesia e di letteratura, ma le mie aspettative finirono frustrate. Giuliani non parlò della poesia dei Novissimi, né di Eliot, Rimbaud, Dylan Thomas o quant’altro: mi descrisse con dovizia di particolari le piante del suo giardino.

Nella vita di ciascuno i professori sono tanti; il Maestro, presumo, è uno solo. Negli incontri successivi parlammo di ciò che ci premeva, e non la smettemmo più per trent’anni. Ma il primo insegnamento fu quello di discutere quello che ci interessava come se non fosse l’unico oggetto, ma quasi per caso, di straforo. L’idea della forma, per Giuliani, era un continuo differimento. Così come nel saggio su una delle opere più ardue di Raymond Queneau, Piccola cosmogonia portatile, parla di qualcosa che si disloca. Questa sostanziale «dislocatura», o, se si preferisce, dislocamento, assume principalmente il carattere di digressione. Ciascun elemento, si direbbe, metonimicamente trova il proprio compimento per accostamento, vicinanza, analogia per contiguità. Questo riguarda tanto la scrittura saggistica quanto quella poetica. Perciò separare la poesia di Giuliani dai suoi scritti critici è qualcosa di arbitrario, e genera confusione. D’altronde, si trova in buona compagnia. I saggi di scrittori e poeti attraversano tutto il secolo breve. Solo qualche esempio: Pound nello Spirito romanzo e nell’Abc del leggere; Eliot in Sulla poesia e sui poeti (peraltro tradotto dallo stesso Giuliani); Hermann Broch nei saggi raccolti in Poesia e conoscenza; Beckett nel saggio su Proust e, entralpe, Montale stesso nei suoi scritti critici (Contini non fa che ricordare come gli scritti critici di Montale siano della stessa famiglia della sua grandezza poetica).

Nel Convegno di Pescara, già ricordato, non si è fatto che riaffermare la stretta interdipendenza, in Giuliani, fra la scrittura critica e quella poetica. Talché, questa ricerca ossessiva della forma persiste in qualsiasi direzione vada la sua volontà di espressione. Anche La biblioteca di Trimalcione, in fondo, non è che un centone di saggi che si dislocano nell’arco di tutta la storia letteraria. La digressione agisce anche, esplicitamente o implicitamente, fra un argomento e l’altro. Come riesce Giuliani a tenere insieme tutte queste spinte e controspinte? Basterebbe leggere uno qualsiasi dei testi contenuti nel volume Adelphi per vedere come il suo stile non sia mai generico, ma sempre estremamente specifico. Le pagine sul De rerum natura di Lucrezio sono fra le più riuscite, così come il saggio su Murasaki e quello su Kierkegaard.

Giuliani ricorda il giovane Ovidio, che si dice certo che il poema di Lucrezio durerà finché durerà la terra. A proposito della conclusione del Libro IV – dedicato ai tormenti fisici dell’amore – scrive: vi è un «furore espressivo e conoscitivo imparagonabile con qualsivoglia altra poesia di cui mi ricordi. Se le dolcezze della passione si mutano presto in “gelida pena” (frigida cura), meglio lenire l’orrenda brama (dira libido) volgendosi alla Venere vulgivaga (errabonda)». Ora, il commentatore dell’edizione Rizzoli del De rerum natura che ha dato origine all’articolo su Lucrezio, afferma che il termine vulgivaga non è riscontrabile in nessun altro autore: Giuliani, e questo è tipico del suo procedere, lo scova in D’Annunzio.

Seguendo la linea della Venere errabonda desunta da Lucrezio, troviamo un altro aspetto fondamentale dell’opera di Giuliani che può servire da bussola per addentrarci in questo libro così variegato: l’erranza. Giuliani è essenzialmente un vagabondo che si addentra in secoli e secoli di storia letteraria. Ogni autore trasmigra in un altro, spesso ritrovandosi proprio nel contrasto. Le dame dell’Anno Mille, le grandi scrittrici Sei Shonagon e Murasaki Shikibu, si ritrovano l’una dentro l’altra per opposizione. La frivolezza della prima è il contraltare dell’intimità della seconda, che infatti la sopporta assai poco. Di questi esempi il libro è ricchissimo. Le peregrinazioni del vagabondo si estendono ben oltre due millenni, toccando Pindaro e Catullo, Ben Jonson e Keats, Ugo Foscolo e Manzoni, Flaubert e Mallarmé, e da Leon Bloy, patafisico cattolico, attraversando Pascoli, si arriva fino a Guimarães Rosa e Michaux. Ma colui che tiene tutto insieme è Giacomo Leopardi, insostituibile e imprescindibile. Pensiero e poesia di Leopardi hanno accompagnato Giuliani per tutta una vita. Raccogliendo i saggi leopardiani, si potrebbe pubblicare un libro a sé: speriamo lo si faccia presto!

È impossibile dar conto qui di tutte le suggestioni disseminate nella Biblioteca di Trimalcione, che riunisce per lo più articoli, successivamente rielaborati, usciti su la Repubblica fra il 1977 e il 1998. Per fare da bussola, troviamo però un testo-spia. È una traduzione parziale del poema The Wanderer, testo inglese del X secolo. I pochi versi tradotti da Giuliani appaiono soltanto in una plaquette intitolata Quel vento di nulla, uscita in pochi esemplari numerati e firmati, nel 1996. In tale breve traduzione, Giuliani si rifà esplicitamente al protagonista del poemetto, per l’appunto il viandante. Testo mai più ripubblicato, che io sappia. Fra le pieghe di questo testo antico c’è il rammarico profondo del vagabondo. Egli è costretto a vagare nell’esilio, dopo aver perso il proprio padrone, in maniera simile a un ronin giapponese. Ma vi è anche la chiara consapevolezza di non lasciarsi abbattere dalla perdita dei valori terreni. C’è tanto di Alfredo Giuliani in questa peregrinazione. Il viandante, il vagabondo riescono a ritrovare il loro emblema. Per un viandante ormai dimenticato, sono essenziali i pochi che ne curano il ribobolo, lo stemma. Così accade a Giuliani, che in uno scritto dedicato a Calvino, pronuncia (cosa per lui rarissima) una massima, un apoftegma: «Solo nella forma di un emblema si può sopravvivere alla realtà».

Resta da chiedersi come mai un autore tanto importante sia stato così a lungo dimenticato. Oltre ai margini del caso, l’imponderabile, è abbastanza coerente questo oblio con la consunzione della letteratura a cui abbiamo assistito in questi anni. Se l’highbrow (per riprendere la nota definizione di Bloomsbury) sprofonda sempre più nel midcult, l’erranza di Giuliani fatica a trovare asilo, rimane esilio del vagabondo. In questo momento, per la prima volta, sembra che la rotta dia qualche segno di mutamento.

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