Alfonso Santagata, elogio al teatro del margine
Intervista Il regista e drammaturgo racconta la sua nuova scrittura teatrale, «Lei», ispirata a Fëdor Dostoevskij: «Vedo il teatro come un luogo di lotta, un’arena»
Intervista Il regista e drammaturgo racconta la sua nuova scrittura teatrale, «Lei», ispirata a Fëdor Dostoevskij: «Vedo il teatro come un luogo di lotta, un’arena»
Incontro Alfonso Santagata alla vigilia del debutto, al Teatro Comunale Niccolini di San Casciano Val di Pesa (Firenze), della sua nuova scrittura teatrale Lei ispirata al romanzo La mite di Fëdor Dostoevskij. Tra gli interpreti riconosciuti del rinnovamento della scena italiana, amalgama la sperimentazione, la ricerca di nuovi linguaggi, idiomi con la rilettura/tradimento della tradizione. È da sempre in antitesi con logiche mercificate del Teatro.
Qual è stato il tuo percorso artistico come drammaturgo e come regista?
Io iniziavo negli anni fortunati. Li chiamo così perché non sono più tornati. Molto, moltissimo tempo fa, negli anni Settanta, ho frequentato la scuola del Piccolo Teatro di Milano. Erano anni in cui potevo andare nei Teatri Off e nei teatri ufficiali, e nello stesso periodo vedere Carlo Cecchi e la sera dopo Leo de Berardinis e Carmelo Bene; la settimana dopo tornare a teatro e vedere al Piccolo Teatro di Milano il Teatro Immagine, Terzo Teatro, Mario Ricci, Giuliano Vasilicò e tante tendenze da tutta Italia. E, senza spostarmi da Milano, potevo conoscere e assistere a spettacoli di Tadeusz Kantor, Pina Bausch, Living Theatre, Squat Theatre, Bob Wilson, Peter Brook. Tutte le poetiche di queste diversità drammatiche tornavano con il loro linguaggio e invenzioni di nuove creature.
Ci sono stati dei riferimenti per la tua formazione autoriale?
Più che di riferimenti, mi piace parlare di innamoramenti. Più che di formazione, mi piace parlare di tentazioni, emergenze. Per il mio lavoro solitamente parlo di percorsi, in questo caso di ‘percorso dell’emergenza’, dell’urgenza di liberarti di qualcosa che hai dentro, di affrontare il mondo che ti circonda. Sono innamorato di William Shakespeare, Georg Büchner, Miguel de Cervantes, Fëdor Dostoevskij. E verso di loro, in particolar modo, sperimento delle ‘tentazioni drammatiche’, le tentazioni di un altro autore/mondo: addentrarsi nell’innamorato lentamente fino a essere risucchiato e sputato insieme a piccoli frammenti dal suo mondo che è ormai il tuo; ancora una volta solo, senza paginette predisposte al teatro. Un percorso ossessivo e solitario, come ogni processo creativo, e fatale come l’innamoramento.
La Compagnia «Katzenmacher» nasce nel 1979 e debutta con lo spettacolo avente lo stesso titolo. C’è un richiamo all’opera «Katzelmacher» di Rainer Werner Fassbinder?
Il titolo dello spettacolo Katzenmacher voleva essere una sorta di dedica a Fassbinder. I due personaggi, «figli dei gatti», come in Germania chiamavano i migranti dell’Europa meridionale e del Medio Oriente, erano vestiti in grisaglie scalcinate, ma con qualche pretesa di eleganza sottoproletaria. Uno dei due spinge l’altro costretto su una seggiola a rotelle, per poi abbondonarlo in fondo in un angolo tra un bidone e un tamburo.
Leo de Berardinis nel 1989 con «Ha da passà ’a nuttata» e tu nel 2004 con «Quali fantasmi» e «Le voci di dentro» avete messo in scena una scrittura ‘sovversiva’ di Eduardo, sottraendolo all’imbalsamazione rituale e commerciale. Secondo te ha senso riproporre ancora oggi le sue opere in formato dvd-style?
Con Ha da passà ’a nuttata Leo ha rotto quel velo che copriva e proteggeva il patrimonio della scrittura di Eduardo. Eduardo per me è stato una specie di conseguenza. A me ha interessato prima conoscere il premondo di Eduardo, l’humus che c’era già: le farse. E le cose che più mi piacciono di Eduardo sono legate a questa sua infanzia drammaturgica, alle sue esperienze da giovane con il padre, alla drammaturgia ottocentesca. Petito Strenge nacque dal bisogno di capire, approfondire quel mondo della farsa che c’era prima di Eduardo, di Totò, di Ettore Petrolini: c’era Antonio Petito attore, ma soprattutto autore di una ricchezza straordinaria. La farsa ha un’immediatezza che altri generi non hanno: con la sua macchineria di travestimenti, equivoci e parodie, cancella psicologia e intimità, assumendo un ritmo accelerato che ricorda i fuochi d’artificio.
La tua scrittura è una catarsi negli ambienti marginali con i propri slang, atteggiamenti e figure estreme. Si può ravvisare una visione pasoliniana?
Considero la catarsi come un momento in cui gli elementi opposti coincidono. Le mie figure estreme non sono sociali: sicuramente spesso parlano la lingua bassa, non sanno come comportarsi, distruggono il loro essere pur di apparire; in questo senso possono essere pasoliniani. Appartengono però più al sentimento della follia, come gioco e paradossi. Vedo il teatro come un luogo di lotta, un’arena, in cui le energie sono alterate. Non si può pensare a un teatro rilassato, quieto, pacifico. Il teatro è un luogo conflittuale con il mondo, dove i sentimenti sovrani come l’amore, l’odio, la follia sono fondamentali: si nutre di sentimenti violenti e alterati. E il delirio drammatico nasce proprio quando si decide di non seguire più un ordine razionale.
«Il teatro in Italia è un autogrill dove trovi di tutto dalla cravatta al caffè, ma è tutto scadente». Oggi più che mai riecheggia forte l’asserzione di Leo de Berardinis per denunciare la decadenza culturale e gestionale dei teatri. È davvero così il ‘sistema-teatro’?
È vero: alcuni teatri diventano Autogrill. Non è solo un ‘non luogo’, è anche un posto dove si vendono cose inutili e protagonista è la cassa; si vedono cose mediocri; le sovvenzioni devono coprire gli stipendi degli impiegati. Il criterio per produrre qualcosa è che costi poco. Succede spesso che alla fine in un teatro è proprio il teatro che manca: tutto il resto c’è ed è presente.
Attualmente a cosa stai lavorando?
Sabato 2 dicembre ultimo scorso ho debuttato con l’ultimo mio lavoro Lei, molto liberamente tratto da La mite di Dostoevskij. In scena c’è un usuraio che, dopo il suicidio della giovane moglie, è sconvolto. Non se l’aspettava, non credeva. Cerca di fare chiarezza nella sua testa, di mettere ordine tra i suoi pensieri. Parla da solo, si contraddice ripetutamente, si discolpa. Un soliloquio delirante e sconnesso con balbettii e ripensamenti: sragiona ad alta voce, cerca di ricostruire le cause della sua catastrofe in un monologo che si sgretola in un dialogo, in cui ricostruisce relazioni con immaginari interlocutori, giudici o avvocati d’ufficio. Si trova anche a parlare con i fantasmi. È anche la confessione di un uomo del sottosuolo: «Sono un uomo malato, sono un uomo maligno». Della giovane moglie sappiamo poco. Possiamo solo immaginare il dolore, le ferite dell’orgoglio, la vergogna dopo la ribellione; lontana dalla superbia del marito.
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