Uscire da nulla – le arti, l’opera è il titolo dell’ultimo libro di Alfonso Cariolato, pubblicato da Mimesis in collaborazione con la galleria d’arte Atipografia (www.atipografia.it). Si tratta di un volume che espone una filosofia dell’arte di taglio assai peculiare, un’elaborazione dove la struttura sembra alle volte avere la forma di una prossemica, mentre la scrittura procede con stile, mantenendo un andamento rigoroso ma lontano dai rischi dell’accademismo della retorica e delle formule a buon mercato.
Abbiamo incontrato l’autore per una conversazione su alcune questioni relative alla sua ricerca.

Perché una filosofia dell’arte oggi?
Non so se si possa ancora parlare di filosofia dell’arte oggi. D’altronde anche l’estetica è quanto meno in una situazione particolare, in quanto – è il meno che si possa dire – vede allargarsi smisuratamente il suo campo di indagine. Qualcosa è cambiato. In un mondo di immagini, le arti vengono sempre più investite di attese e aspettative in modalità sconosciute in passato. Non a caso, l’arte è in costante rischio di sovradeterminazione o saturazione. Se, per un verso, essa è senz’altro il campo di un accadere non predeterminato che apre inedite esperienze di percezione, offrendo schemi e procedure nuovi per vivere e pensare il tempo in cui viviamo, dall’altro l’azione pervasiva del mercato fagocita in continuazione il suo potenziale di interruzione e di squarcio. Non si tratta di mettere l’uno contro l’altra il mercato e l’arte, sarebbe a dir poco ingenuo – anche se certo il livellare ogni cosa sul metro dell’equivalente generale, ossia del valore monetario, è sempre sul punto di stravolgere e deprimere l’incalcolabile, il non-dato del dato, ossia il senza misura per cui ne va dell’esistenza libera. Ciò che conta è che, a volte, la reificazione – se vogliamo usare questo termine ormai sintomaticamente desueto – in qualche modo fallisce anche quando riesce. Fallimento e riuscita, infatti, sono, nel caso dell’arte, stranamente contigui o compresenti per eterogenesi. Infatti, se le arti resistono (quando resistono) è solo grazie a qualcosa di gratuito nel duplice senso di ricevuto senza pagamento e concesso senza particolare merito. Inoltre l’arte è cosmopolita e, molto di più, rende visibili i legami tra i viventi e i non viventi, e dunque le concatenazioni, gli sconfinamenti rispetto alle classificazioni consuete. Essa demolisce l’illusione dell’uomo di essere solo e di godere di un qualche tipo di privilegio nell’ordine naturale, facendogli esperire la bellezza e lo squallore del mondo. L’arte (da intendersi sempre al plurale) è fatta di relazioni, di ibridazioni, di mescolanze. Si tratta di collegare cose disparate creando una sorta di campo magnetico in cui qualcosa accade. Imprevedibilità, irruzione. Per questo con l’arte la domanda intorno alla causa finisce per assumere un carattere abissale tale da scuoterla da cima a fondo. È questo a intrigare la filosofia.

Nell’arte, dunque, non si nasconde qualcosa che dev’essere palesato?
Al contrario. Tutto è visibile nell’arte. Fin troppo. Non solo perché l’arte è sovraesposta, rischiando così paradossalmente di non essere vista, ma anche in quanto non c’è niente di nascosto nell’arte. Anche quando l’opera nasconde, lo fa in assoluta chiarità. L’arte mostra come in ogni presenza ciò che acceca è l’inesplicabile andar da sé del fatto di essere, di esistere. In questo l’opera è portatrice di una necessità che tutti sono in grado di sentire. E poco importa se dura millenni o l’istante di un gesto. Invero, lo stesso si può dire di ogni ente – anche se è raro accorgersene. L’arte rende tutto ciò appena più evidente.

Il tuo libro si articola in due parti, la prima di taglio teoretico mentre la seconda focalizzata su quattro casi di artisti diversi (J. Pollock, J. Cage, R. Rauschenberg, F. Bacon). Perché questa scelta? Parlo sia della struttura in sé, sia degli artisti specifici.
La prima parte è una sorta di avanscoperta, di esplorazione della vita altra o sconosciuta in cui ci fa penetrare l’arte. Con l’avvertenza che neppure i sensi danno luogo ad alcuna immediatezza. Questo perché l’immediatezza non è. E anche quando crediamo di vivere un’esperienza immediata si tratta del passaggio di qualcosa che resta inafferrabile. In questo modo si è attraversati da un’assenza che, nondimeno, non è una mancanza. Le arti sono delle vie d’accesso attraverso cui, tuttavia, non si accede a nulla. Ma si sa che la via interrotta è pur sempre una via. Anzi, per gli enti finiti è ogni volta la sola via. Questa parte del libro, dunque, si interroga innanzitutto sul formarsi della materia, sul suo uscire da nulla senza una ragione assegnabile. Gli enti escono da nulla perché l’essere, seppur è, si sottrae a qualsiasi determinazione. Creatio ex nihilo, infatti, vuol dire letteralmente creazione «da nulla», ma qui intesa senza creatore, senza finalità. Così, le arti calibrano e misurano il loro progettare su questa a-progettualità creativa continua e molteplice in cui ogni cosa è. Questo non significa che l’arte dica la realtà; la mostra, piuttosto, o l’allude, sfiorandola. Essa segna ogni volta, in modalità diverse, lo scarto della non coincidenza a sé di tutto ciò che è. Non la sostanzializazione del nulla (nichilismo), ma un pensiero del nulla di principio. Nella seconda parte, poi, attraverso la lettura dell’opera di tre pittori e di un musicista, tutto questo viene cercato nell’effettività della pratica artistica, vale a dire: nell’oscillare della linea e dei colori tra immagine e matericità, e il conseguente (cominciare a) farsi da sé della pittura, in Pollock; nel non fare nel fare e nell’abbandono a se stessi dei suoni, in Cage; nella lieve interruzione del flusso delle cose che ne rende palpabile lo scorrere, in Rauschenberg; e infine nel fuggire inesorabile della realtà a ogni tentativo di fissazione, in Bacon. Per quanto mi riguarda, questi artisti non vogliono essere dei paradigmi; altri avrebbero potuto essere presi in considerazione. Ma non c’è dubbio che queste quattro figure aprano, per certi aspetti, il contemporaneo. Infatti, il tempo che è il nostro si caratterizza per l’uscire da sé delle arti in direzione di un confine sul quale si è in continua esplorazione ed esposizione, con le inevitabili – clamorose o indifferenti – riuscite e fallimenti. Quanto ho cercato di evidenziare con l’analisi di queste quattro opere, allora, benché sottotraccia, è stata anche una sorta di preistoria contemporanea del contemporaneo.

In ultimo, vorrei chiederti una riflessione su cos’è per te la scrittura in relazione all’arte e in senso lato alle immagini, dal momento che nel tuo caso scrittura e pensiero sono intrinsecamente legate. Immagino ci sia la questione del dare il giusto nome alle cose, ma anche molto altro.
È senz’altro una grande questione quella che tu poni. Il problema è trovare la giusta distanza tra il mero calco e l’occasione per parlare d’altro. Il pensiero non dice l’arte, non la significa, e neppure la utilizza per chiarificare le sue procedure o i suoi concetti. Fa qualcos’altro. Cerca l’esattezza, per usare un’espressione di Jean-Luc Nancy. L’arte è il cammino del «non». Non rappresentazione nella rappresentazione; non visibile nel visibile; non udibile nel suono; non immagine nell’immagine, non forma nella forma, non figura (o figurazione) nella figura. Ma questo «non» non è, e basta. In altri termini: è ingestibile, inutile e inutilizzabile. Per il pensiero si tratta di rapportarsi all’impossibilità o all’improprietà nella proprietà che si dà con un sapere, un «mestiere», la sensibilità e le tecniche, senza caricarsi di ciò che non può portare. In ogni opera vi è una chiamata, un appello silenzioso, insistente, a cui la scrittura cerca di far fronte. Si tratta, tuttavia, di una chiamata di nulla a nulla. Con le arti ne va di noi, e – beninteso – questo «noi» va dilatato fino a toccare l’intero universo.