L’ALFILM Festival- Cinema Arabo a Berlino per la scorsa edizione ha puntato i riflettori sulle città arabe. Beirut, Il Cairo, Tunisi, sono il simbolo delle ambiguità moderne, tra dolori, fantasmi e sogni perduti. Città che sono state bombardate, invase, minate da colpi di stato, rimodellate da sfollamenti e migrazioni, ma anche testimoni di rivoluzioni e speranze di cambiamento. Il cinema ha documentato e immaginato queste dinamiche ma come appaiono i grovigli urbani agli occhi dei registi arabi tra produzioni contemporanee e classiche? Batal e Fatma sono due poliziotti protagonisti del film del tunisino Youssef Chebbi «Ashkal» (2022) che indagano su una serie di autoimmolazioni nel desolato complesso in costruzione «Gardens of Carthage». Un thriller post rivoluzione, ad alta densità visionaria e metaforica, che richiama le responsabilità di un sistema politico e non di meno dei singoli. Fin dall’inizio il cinema egiziano ha raccontato l’urbanizzazione; la fascinazione era però spesso accompagnata da scetticismo e da un senso di malinconia per un candore perduto. «Life or Death» di Kamal al-Shaikh (1955) è stato uno dei primi lungometraggi arabi, la cui maggior parte delle scene, sulla scia del neorealismo italiano, sono state girate nelle strade del Cairo. Una bambina cerca la medicina per il padre mentre la metropoli egiziana appare nel film come un enorme labirinto, inflitto da rischi e mali spietati che spinge la vita sull’orlo della morte non senza una amarissima ma godibile ironia. Il film del maestro egiziano Youssef Chahine, recentemente restaurato, «Dawn of a New Day» (1965) rende omaggio alla metamorfosi del Cairo degli anni ’60.

Il film allude a un futuro ottimista promesso dalle riforme socialiste di Nasser mentre ritrae la decadenza delle élite borghesi tramite una storia d’amore impossibile tra lo studente Tarek e Nayla, molto più grande di lui, sofferente per una vita vuota e apatica. Sulla possibilità dell’amore si muove, invece, «Gaza Mon Amour» (2020), la delicata favola dei gemelli Arab e Tarzan Nasser, cresciuti nel campo profughi di Jabalia. Issa è un pescatore innamorato della sarta e vedova Siham ma non trova il coraggio di esporsi finché non rinviene in mare un frammento particolare di una antica statua di Apollo. La politica resta sullo sfondo, almeno il tempo necessario per provare a vivere. Ma è Beirut, la città araba che forse più di tutte si pone al crocevia di rarefatte memorie. «After The End Of The World» (2022) è il documentario di Nadim Mishlawi su un luogo che è un enorme esperimento urbano, dalle mappe in perenne genesi, seguendo la pista «architettonica»per sanare il seguente quesito «Può una città scomparire costantemente pur restando presente?».