Alexander Nagel e Christopher S. Wood, choc temporali nell’opera d’arte
Bottega di Raffaello, Battaglia di Ostia, particolare del Telamone a sinistra, Stanza dell’Incendio, parete est, Città del Vaticano, Musei Vaticani
Alias Domenica

Alexander Nagel e Christopher S. Wood, choc temporali nell’opera d’arte

«Rinascimento anacronico» I due studiosi americani, ispirandosi alle ricerche di Hans Belting, indicano una lettura a più fuochi, stratificata, del secolo di Raffaello. Edito da Quodlibet
Pubblicato 26 giorni faEdizione del 1 settembre 2024

Nel settembre del 2005, sull’«Art Bulletin», una delle più influenti riviste al mondo di Storia dell’arte, era pubblicato un articolo a firma di Alexander Nagel e Christopher S. Wood. In quelle pagine i due studiosi americani lanciavano una proposta che avrebbe agitato il dibattito metodologico della disciplina, come appariva chiaro già da quel fascicolo del periodico, dove erano raccolte alcune ‘risposte’ alla proposta di Nagel e Wood, a firma di Charles Dempsey, Michael Cole e Claire Farago che, acutamente, discutevano le novità – e i punti problematici – delle pagine di Nagel e Wood.

L’oggetto del dibattito ruotava attorno a un nuovo modo di interpretare l’anacronismo rinascimentale, cioè quella particolare modalità che hanno le opere d’arte di far ‘collassare’ la (loro) temporalità verso un modello, per l’appunto, anacronico. Si tratta di un modo di intrecciare e connettere diversi momenti temporali, facendo sì che la successione cronologica subisca un’alterazione, una perturbazione. Se l’anacronismo è concetto ben utilizzato dai filosofi – e basterà ricordare le riflessioni di Walter Benjamin sulla relazione discontinua tra presente e passato fissata nei Passagen-Werk – per gli storici dell’arte è categoria meno familiare, per lo meno così come applicata da Nagel e Wood.

Era l’inizio di un progetto di più ampia gittata, che avrebbe portato, cinque anni dopo, alla pubblicazione di un volume, Anachronic Renaissance, per i tipi di Zone Books, che proponeva una maniera diversa di guardare all’arte del Rinascimento (soprattutto). È quindi lodevole che Rinascimento Anacronico sia adesso reso disponibile in italiano da Quodlibet (pp. 576, 120 ill. in b/n, € 38,00), nell’accurata traduzione di Giuseppe Lucchesini e con la curatela di Stefano Chiodi, che firma anche la postfazione al libro. Si tratta, fra l’altro, del volume inaugurale di una nuova collana della casa editrice, «Logica della sensazione», che accoglierà testi diversi per orientamento e metodologie, ma che si preannuncia già di notevole interesse.
Innanzitutto, il titolo. La scelta del meno comune anacronico rispetto al più diffuso anacronistico permette di svincolare l’aggettivo dalla sfera semantica peggiorativa che, di fatto, lo caratterizza. Quindi non un’arte attardata, fuori sincrono rispetto al proprio contesto, quanto piuttosto manifestazioni che nell’attardamento agiscono sul tempo imponendogli un ritorno. Certo, molto dipende dal punto di vista degli osservatori, che percepiscono o meno questa sfasatura temporale.

Dunque, cosa fa l’opera d’arte anacronica? Come riesce a far accartocciare il tempo su sé stesso e a connettere le diverse temporalità di cui si fa tramite? Sono due i principi cardine individuati dagli autori: la sostituzione e la performance. Tutte le immagini, soprattutto quelle sacre, portano su di sé il tempo che le separa dal loro prototipo e che, insieme, di fatto annulla quella distanza, riportando nel presente proprio l’originario, seppur sotto specie diversa. Pensiamo alle raffigurazioni della veronica, cioè il velo su cui si impressero le fattezze di Cristo quando una pia donna deterse il suo volto durante l’ascesa al Calvario.
Nella sua doppia visualizzazione, orientale, dove l’immagine è chiamata Mandylion, e occidentale, dove si parla invece del velo della Veronica, anche la tradizione figurativa si sdoppia, dando origine a opere diverse eppure accomunate dal loro modo di ‘funzionare’. La riproposizione di quell’immagine riporta l’evento sacro nel presente dell’osservatore, lo riattiva. Chiaro è che non conta molto chi abbia realizzato quella o questa immagine del sacro velo, né tantomeno in che momento del tempo storico essa sia stata eseguita: conta di più, molto di più, la genealogia tipologica, il richiamare il modello sacro e prototipico.

Agli aspetti dell’autorialità e della temporalità dà invece peso la modalità della performance, che non può fare a meno del posizionamento cronologico, del suo stare-in-un-tempo. È la modalità che riconosce valore al chi, all’autore di una data opera; è la categoria che, di fatto, ci è anche più propria, abituati come siamo a riconoscere valore all’autore, poniamo, di un dipinto – un affresco di Raffaello ha, ipso facto, più valore ai nostri occhi rispetto a un dipinto attribuibile a un suo seguace. È tra questi due poli che si muove la stragrande maggioranza delle creazioni artistiche lungo tutto l’arco temporale che porta dal tardo-antico alla modernità quattro-cinquecentesca, ma è chiaro che molto spesso si determinano sovrapposizioni, contraddizioni, scarti.

Quello proposto da Nagel e Wood non è uno schema rigido e oppositivo; piuttosto si tratta di riconoscere, di volta in volta, in che modo le opere d’arte abbiano agito e si siano fatte portatrici di idee e valori che, spesso, non erano previsti al momento della loro creazione. Appropriandosi e rielaborando le ricerche di Hans Belting, che aveva riconosciuto la dicotomia tra «immagine di culto» e «opera d’arte», gli autori ampliano quelle proposte e, allo stesso tempo, le rendono più porose, più sfumate. Se le immagini di culto hanno la loro ragion d’essere nella loro funzione sacra, che nel corso dei secoli oltrepassa di gran lunga il valore artistico, è solo con l’emergere dell’idea di opera d’arte autoriale che il paradigma si capovolge. Ma nel corso della loro lunga vita le opere vanno anche incontro a ridefinizioni categoriali, per cui alcune funzioni si perdono e altre, ovviamente, si acquisiscono. Ecco, proprio in questo cambiamento, sottile, lento, a tratti anche inafferrabile, è possibile scorgere il meccanismo anacronico. Se l’immagine che ha funzione sacra in una certa misura prescinde dalla necessità di avere un autore, con l’emergere delle forme creative basate sul principio performativo il paradigma cambia, e si afferma la personalità dell’artista.

Il libro è ricco e sfaccettato; i moltissimi casi ed esempi attraverso cui sono messe in luce le diverse temporalità delle opere rinascimentali spaziano nel tempo e nella geografia, dal nord Europa quattrocentesco alla Roma di Leone X, sino alla Firenze medicea. Ogni caso trattato è funzionale a far emergere la non-linearità del tempo delle opere, divise come sono tra momento della loro creazione, loro immanenza nel presente (di qualunque presente si tratti), richiami a prototipi antichissimi e mitici. Una parcellizzazione che è consustanziale alla materia trattata: non si tratta di una monografia sul Rinascimento, quanto piuttosto di una delucidazione sui modi che quell’epoca sviluppò per dar corpo alle tensioni insite nella produzione visiva (performativa e sostituzionale), che, di volta in volta, trovava soluzioni diverse, spesso accattivanti, sicuramente cariche di novità rispetto al futuro.

Se al centro del discorso del libro stanno soprattutto le immagini sacre e l’architettura, come loci in cui queste tensioni emergono in modo più fragoroso, le linee interpretative si muovono anche verso altri tipi di opere, come le sculture o le miniature, i mosaici e le stampe. Il punto di cesura, dopo il quale molto sarebbe cambiato, è individuato in opere come i grandi cicli affrescati da Raffaello per le Stanze Vaticane. Con quelle scene il tessuto sostituzionale si lacera. Raffaello mette in campo una serie di novità che, pur in un contesto sacro quant’altri mai, nel cuore della cristianità, e dunque dove il principio sostituzionale dovrebbe essere al suo più alto voltaggio, non punta più a richiamare la catena (antica, densa di senso, significante) delle immagini precedenti. Piuttosto crea qualcosa di nuovo, delle «finzioni istantanee», che combinano diversi aspetti delle varie istanze che attorno a quegli affreschi si coagulano.

Richiamandosi ai precedenti di Aby Warburg ed Erwin Panofsky, che avevano individuato nella carriera dell’Urbinate una cesura negli sviluppi dell’arte, anche Nagel e Wood si fermano su quella soglia, dopo la quale i paradigmi tanto produttivi quanto interpretativi mutano profondamente. A rileggerli oggi, dopo che molte delle tesi avanzate dai due autori sono state discusse, attaccate, rielaborate – il tutto assai poco in Italia –, si ha la sensazione che il Rinascimento che il volume ci offre sia un’epoca molto più ricca e sfaccettata di quella che avevamo e, soprattutto, un’epoca in profonda continuità col suo passato medioevale.

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