Punto di partenza di ogni rinnovamento artistico del primo Novecento e allo stesso tempo ispiratore delle forme più odiose del pensiero reazionario e antimoderno, Wagner evoca un inestricabile groviglio di contraddizioni, del quale l’esempio a suo modo emblematico sta nelle pagine di Joyce, che nel 1923 scrisse una parodia contemporanea del Tristan und Isolde, ambientata sul ponte di uno yacht con tanto di orchestra jazz. Tristano è un campione di rugby e Isolde la reginetta di Chapelizod, un sobborgo di Dublino dove secondo la leggenda è sepolta l’irlandese Iseult. Dopo un corteggiamento alquanto sbrigativo, gli amanti se ne dicono di tutti i colori ma poi finiscono per riconciliarsi con un grande bacio, «the big kiss of Trustan with Usolde».

Impulsi contraddittori

Il nodo del caso Wagner consiste nell’incredibile impasto di impulsi nobili e abbietti di quest’uomo nella cui opera di musicista, poeta, organizzatore è riassunto l’intero Ottocento, un secolo di dolore e di grandezza, come si legge nel titolo della conferenza del 1933 di Thomas Mann, che segna il suo strappo con la Germania nazista. Nell’universo Wagner più o meno chiunque ha potuto trovare un filo per tessere la propria tela artistica, filosofica, politica, indipendentemente dall’autentica cornice del pensiero del vecchio Mago di Bayreuth, peraltro impossibile da fissare. Nessuno dovrebbe parlare di Wagner – scrisse Nietzsche in un frammento postumo – senza usare l’avverbio «forse».

Il nuovo libro di Alex Ross, critico musicale del «New Yorker» e autore del celebre Il resto è rumore (Bompiani, 2009) tenta di incanalare la incandescente lava generata da Wagner nella cultura occidentale in un racconto razionale e distribuito cronologicamente, dalle prime epifanie del moderno colte con orecchio febbrile da Charles Baudelaire nel famigerato Tannhäuser parigino del 1861 alle visionarie immagini dei film di Terrence Malick, che in To the Wonder (2012) mescola il Parsifal a citazioni di Heidegger per mettere a fuoco in un contesto contemporaneo e drammaticamente mutato quel tema schiettamente wagneriano che è il rapporto tra arte e natura. Arrivati all’ultima pagina di Wagnerismi Arte e politica all’ombra della musica (traduzione di Lorenzo Parmeggiani e Andrea Silvestri, Bompiani 2022, pp. 1173, € 35,00) si esce un po’ frastornati dall’imponente fiume di personaggi, citazioni, fenomeni segnati dall’impronta di Wagner, che ha lambito i confini della civiltà occidentale.

Ampie parti dei quindici capitoli sono dedicate al cinema, che in un certo senso deve la sua stessa esistenza alla rinnovata idea della caverna di Platone riesumata per il tempio di Bayreuth. Il connubio tra Wagner e il militarismo sarebbe stato segnato per sempre dalla scena finale di Nascita di una nazione di D.W. Griffits, un kolossal apertamente razzista del 1915, dove uno squadrone di affiliati del Ku Klux Klan, incappucciati e bardati con una tunica bianca da crociati, si lancia al galoppo per salvare una città sudista caduta nelle mani di rozzi e brutali soldati neri unionisti, mentre l’orchestra accompagna dal vivo la scena con la Cavalcata delle Valchirie. Da allora, scene e battute fin troppo note avrebbero alimentato un secolo di cinema. Assai più cupa e problematica l’equazione tra la musica di Wagner e la shoah, tema ancora oggi estremamente controverso, specie in Israele, dove l’autore del Ring è tuttora bandito dalle sale da concerto: un tema presentata per la prima volta al cinema da Pasqualino Settebellezze, la commedia nera del 1975 di Lina Wertmüller.

Ma Ross affronta il tema dell’antisemitismo di Wagner e del suo innesto nel sistema politico di Hitler ben oltre le sue rappresentazioni cinematografiche, rintracciando le ramificate radici wagneriane del sentimento antiliberale e antidemocratico sparse in tante forme del pensiero reazionario moderno, che si è impossessato del vessillo di Bayreuth con la stessa brutale prepotenza con cui liquidava ogni opinione contrastante. Di questa nefasta influenza sono stati in gran parte responsabili personaggi come il direttore dei Bayreuther Blätter Hans von Wolzogen prima, e il genero di Wagner Houston Stewart Chamberlain poi, che predicarono un implacabile razzismo dalla roccaforte di Bayreuth, anche in contrasto con le opinioni dello stesso Wagner. Per quanto odioso e ingiustificabile, il suo antisemitismo era infatti di natura culturale, mentre quello di Chamberlain era fondato sul concetto pseudo-scientifico di razza. Dai diari di Cosima sappiamo che negli ultimi anni Wagner si lamentava di non essere compreso nel suo ideale di rinnovamento universale e temeva che i wagneriani di Bayreuth lo avrebbero reso ridicolo, facendo di ogni sua opinione «qualcosa di irrevocabile e immodificabile».

Il libro di Ross è una sorta di gigantesco flusso di coscienza di un secolo e mezzo di cultura occidentale, delimitato dai poderosi argini elevati dai drammi musicali di Wagner. La scelta di volgere al plurale il titolo originale sottolinea l’incredibile apertura alare dell’influenza di un artista che ha saputo radunare sotto la propria bandiera tutto e il contrario di tutto, lo sciovinismo più becero e il cosmopolitismo, l’odio per il diverso e la compassione, la volontà di potenza e l’arte della minima transizione, l’erotismo più sfrenato e la castità purificatrice.

Una materia indomabile

Ross perlustra palmo a palmo la letteratura, l’arte, il cinema, la filosofia, la psicoanalisi alla ricerca di ogni traccia del passaggio di Wagner, lasciando fuori curiosamente solo la musica, se non nelle forme applicate ad altri linguaggi. Per quanto abile e fluida sia la scrittura di Ross, maneggiare una materia del genere, per la quale non basterebbe uno stuolo di specialisti, rischia a volte di rendere il libro una gigantesca pagina di Wikipedia. Per un lettore europeo, i passaggi più interessanti sono probabilmente quelli dedicati all’influenza di Wagner sulla letteratura della nuova frontiera americana, per esempio in una scrittrice come Willa Cather, e i riverberi sui generi più legati alla cultura pop come il fantasy e il cinema. «Quando guardiamo Wagner – conclude Ross nel bel Postludio – stiamo contemplando attraverso una lente d’ingrandimento l’anima della specie umana»: non sempre ciò che vediamo è gratificante o consolatorio, ma il solo fatto di aprirci lo sguardo rivela una qualche grandezza.