Alex Langer, esempio necessario di impegno
Frammenti Teorico e leader, tra Bolzano e Berlino, patì le pene della politica e anche la miseria della politica
Frammenti Teorico e leader, tra Bolzano e Berlino, patì le pene della politica e anche la miseria della politica
In questi giorni (mesi, anni) mi capita spesso di pensare ad Alexander Langer, per tutti Alex, morto nel luglio del 1995, quasi trent’anni fa. È stato una delle persone che ho stimato di più, della generazione che era quella del secondo dopoguerra, più giovane di me di una decina d’anni, di me che in qualche modo marginale la guerra ho fatto in tempo a vederla da vicino. La seconda guerra mondiale… La generazione dei Sofri e dei Rostagno, dei Capanna e dei Brandirali, ma anche delle tante compagne tenute ai margini dal nostro maschilismo; la generazione di «Lotta continua», del «manifesto», di «Avanguardia operaia» eccetera – la generazione che tentò, forse con superficialità, una «scalata al cielo» presto sconfitta, e che è passata alla storia come «il ‘68».
Seguito a ruota da un ‘69 operaio a cui aveva aperto la strada, e che aveva anzi sollecitato all’azione e auspicato potesse prendere «la testa del movimento», da un Nord e un Sud finalmente «uniti nella lotta».
Sì, Alex ci manca, manca a quanti che l’hanno conosciuto ricavando dalle sue solide convinzioni e dal suo modo di esporle, insieme pacato e appassionato, persuasioni più profonde, idee più precise, un esempio di militanza davvero necessario e mai, davvero mai settario. «Uno come Alex» credo manchi davvero, più in generale, oggi, al dibattito politico e culturale, e purtroppo non solo in Italia. Il suo retroterra aveva favorito la sua visione più larga della nostra della politica, del rapporto tra etica e politica.
Ho scritto una volta che Alex aveva tentato di «piantare la carità nella politica», nel rapporto tra l’uno e i tanti (il «tutti» capitiniano), e che le sue idee nascevano anche dal fatto di essere altoatesino, un po’ italiano e un po’ tedesco, ma anche un po’ ebreo e un po’ cattolico (e fu per lui molto importante, per esempio, il periodo che trascorse in Toscana con la frequentazione diretta di don Milani).
Fu un teorico e un leader dei Verdi, tra Bolzano e Berlino, e patì le pene della politica, e anche, diciamolo, la miseria della politica. Del «che fare?», di fronte alle tragedie e alle viltà del nostro tempo, per di più nel mentre una guerra fratricida faceva quotidianamente vittime nella ex Jugoslavia. Fare da ponte, insistendo nel proporre il dialogo, con una visione della politica che fosse insieme locale ed europea.
Nessuno può capire perché uno si suicida, tanto meno – credo – gli psicologi e i preti, ma non è certamente sbagliato pensare che, oltre a chissà quali pene private, abbia influito sulla decisione di Alex di uccidersi anche – come chiamarla? – l’angoscia della politica, la povertà di visione anche di amici, la pena del «far da ponte». Oggi, di fronte a quanto succede su un tremendo fronte di guerra tra Russia e Ucraina e a quanto succede in Palestina è giusto chiedersi cosa Alex avrebbe detto e cosa avrebbe cercato di fare. Ma proviamo, intanto, a rileggerlo.
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