«Quando il lavoro diventa parte integrante della tua vita è difficile separare l’uno dall’altra», afferma Alessio Maximilian Schroder (Roma 1985, vive e lavora a Vienna) mentre sfoglia The Shape of self (il libro è stato pubblicato nel 2019 da Seipersei): le foto sono esposte alla X edizione del festival Castelnuovo Fotografia dal tema «Paesaggi Plurali/ Differenti Trame/ Molteplici Genealogie» (1-9 ottobre 2022). Realizzato su pellicola tra il 2014 e il 2018, il lavoro è un ritratto corale delle macro comunità transgender del Bengala Occidentale – hijira, donne trans e uomini trans – che proprio nel 2014 venivano riconosciute dalla Corte Suprema indiana come «terzo sesso».

Diversamente dai tempi rapidi del fotogiornalismo che Schroder ha studiato all’Istituto di Fotografia ISFCI di Roma, la necessità per lui è stare a lungo sul posto, per poter instaurare rapporti duraturi con le persone con cui interagisce. «Dopo la Serbia e Tel Aviv sono tornato a Vienna, dove mi sono occupato di empowerment femminile con un focus sull’ambiente della prostituzione e il sex working. Nel 2014, lavorando sul corpo e sul ritratto ambientato, è nato Pórne. Anche in The Shape of self (la forma del sé) ho lasciato al soggetto tutta la libertà possibile, sia della scelta dell’ambiente in cui farsi ritrarre che della posa e degli indumenti. Era importante la sua accettazione nel mostrare la propria identità».

Perché la scelta dell’India e, in particolare, del Bengala Occidentale?
Volevo fare una sorta di proseguo di Pórne in Oriente, cosa molto complicata. Sapevo di Sonagashi, conosciuto anche come Golden Tree, il quartiere a luci rosse di Calcutta. Costruito dagli inglesi è forse il più grande di tutta l’Asia. Molti film sono stati girati lì, tra cui il documentario Born Into Brothels (diretto da Zana Briski e Ross Kauffman, vincitore nel 2005 del premio Oscar al miglior documentario – ndr). Nei miei primi viaggi in India, a partire dal 2010, sono andato a Sonagachi per cercare di capire se fosse possibile farci un progetto, poi nell’estate 2014 decisi di trasferirmi a Calcutta. Ci andai con una sorta di borsa di studio come studente di hindi, anche se studiare hindi in un posto dove si parla bengali è come andare a imparare il tedesco a Napoli! Mentre ero a Calcutta ho anche collaborato con l’industria cinematografica di Tollywood e Bollywood. Però la condizione di Sonagachi è ben diversa da quella di Vienna, dove le prostitute scelgono quella professione lavorando come libere professioniste. In India c’è una questione di caste, sfruttamento, prostituzione minorile, condizioni igieniche pessime e malattie diffuse. Ho capito quasi subito che sarebbe stato impossibile portare avanti il mio lavoro sul sex working, ma c’è stata una cosa che mi ha comunque fatto andare avanti, spostando l’attenzione verso un altro aspetto sociale. Quando finalmente riuscii a trovare una casa in affitto, cosa molto difficile per un occidentale soprattutto se single e giovane, dopo nemmeno tre giorni vidi arrivare un gruppo di hijra che mi chiedeva soldi. È stato impossibile tenerle lontane. Sono entrate in casa, si sono sedute e ho dovuto offrire loro da bere, spiegando che non essendo hindu le loro maledizioni non mi interessavano. Le hijra, infatti, hanno il potere anche come possibilità di guadagno di fare e togliere fatture. Benedicono o maledicono la nascita di primogeniti, fidanzamenti… Insomma, porta male se non ci si fa benedire la casa da loro. Proprio attraverso quest’esperienza ho conosciuto una di loro che parlava inglese. Annie era una «capa» del clan di base a Calcutta ma trascorreva molto tempo a Delhi. Siamo diventati amici. Sulla comunità degli hijra ne sapevo abbastanza e, dato che nel 2014 l’India ha riconosciuto il terzo genere, trovandomi sul posto ho deciso di lavorare sul tema dell’identità sessuale.

Però, benché andassi a pranzo da Annie anche una volta a settimana, prima che si ammalasse, non ho nessun ritratto di lei. Non vado in giro con la macchina fotografica, il clic avviene solo dopo tanto tempo. Lei mi aveva pure invitato a Delhi, ma io rimango fedelissimo a dei limiti che mi do. Era importante che questo lavoro rimanesse circoscritto all’area di Calcutta.

Come sei riuscito a coinvolgere le altre comunità transgender?
Non ho mai pagato nessuno per farsi ritrarre, semmai ho offerto qualche pranzo. Questo ci tengo a sottolinearlo. Comunque, al di là della presenza delle hijra che hanno un riconoscimento popolare, sebbene sfruttato dal punto di vista mediatico, c’è un numero enorme di trans che non ha nulla a che vedere con quella «enclave». Persone normali che hanno lottato per arrivare al riconoscimento della propria identità. Ho iniziato cercando associazioni che si occupassero di trans come Sappho, ATHB, Pratyay Gender Trust, Amitie Trust, SRS Solution, Aanandam, Dum Dum Aika, West Bengal Forum for Gender and Sexual Minority Rights.

Uno dei primi incontri è stato con l’attivista transgender Ranjita Sinha. La chiamai intorno a metà ottobre e lei mi invitò alla festa che avrebbe organizzato per il suo compleanno, il 22 ottobre. Il mio compleanno è quello stesso giorno! Abbiamo festeggiato insieme. È stata una situazione paradossale ma erano anche dei segnali che mi hanno fatto credere nel lavoro che stavo facendo. Da una persona ne ho conosciute dieci, da dieci cento, da cento cinquecento… questo per circa due anni e mezzo, scattando forse quattro foto in tutto.

Quindi, le foto quando sono state realizzate?
Dopo essere tornato a Vienna perché non mi era stato riconfermato il visto e aver conosciuto Daniela, la mia compagna che parla hindi, ho deciso di tornare nuovamente in India per fotografare. Il lavoro fotografico è stato realizzato nel 2017 e soprattutto nel 2018. Ho usato una Mamiya, scattando per ogni ritratto un massimo di cinque immagini nel formato 6×7. Ho lavorato a pellicola ma le foto le ho viste solo nel 2019, al rientro in Europa, quando ho sviluppato e stampato i rullini.

Spesso le «trans women» sono ritratte all’interno delle mura domestiche mentre i «trans men» all’esterno…
Io scelgo solo il «frame» che possa riassumere il più possibile non solo il racconto della persona, ma dell’India stessa e del Bengala Occidentale. Il posto, la posa e l’indumento sono scelti esclusivamente dalla persona ritratta. Spesso si tratta di luoghi in cui si è sviluppato il processo di riconoscimento dell’identità. Mantu Devi, guru hijra, mi ha concesso solo venti secondi per essere fotografata durante il Ramadan nella sua casa con la sputacchiera, ma alcune hijra sono fotografate all’esterno perché lavorano fuori. Certamente i «trans men» si sono potuti integrare più facilmente nella società indiana. Ankan (Ankani Biswas alias Ankan Biswas), primo avvocato transgender della corte di Calcutta mi ha voluto portare alla Corte, facendosi fotografare tra tutti gli altri uomini, mentre Dipan che è produce manager ha voluto incontrarmi durante una pausa pranzo nella piazza di fianco al suo ufficio e ha scelto di farsi ritrarre davanti alla scultura dell’elefante. Neel, super attivista, voleva che ci fosse Calcutta sullo sfondo, perciò l’ho fotografato sulla terrazza di casa: indossa la T-shirt con la scritta «take your risk» sopra i boxer. Di fondamentale, per me, c’è lo sguardo in macchina perché è l’accettazione da parte del soggetto della propria identità. Non voglio il riso e il sorriso… e non far sorridere gli indiani è stata una vera fatica… (sorride)