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Alessandro Magno icona flessibile

Alessandro Magno icona flessibileL’evocazione di Alessandro Magno in «The Fall», 2006, film diretto da Tarsem Singh

Storia antica Un solido studioso francese ignorato dai nostri editori, Pierre Briant, smonta le ricezioni eurocentriche e orientalistiche di Alessandro Magno, rivalutando la «cornice» achemenide

Pubblicato quasi 8 anni faEdizione del 5 febbraio 2017

«Li sovrani nun zò tutti compagni? / Saranno o un po’ più belli o un po’ più brutti: / ponn’èsse o meno boni o più cattivi; / ma articolo magnà, magneno tutti». Così in un sonetto del Belli la voce di un popolano liquida la grandezza di Alessandro e degli altri «magni» della Storia. Di fatto, il testo sfiora una disputa che da secoli divide gli storici: fu veramente grande Alessandro il Grande? Le risposte possibili sono state articolate in un numero enorme di scritti. La visione tutta positiva è attestata già tra gli antichi ed ha avuto lunghissima fortuna: Alessandro sarebbe stato un condottiero di ineguagliata grandezza, invitto, eroico. Ma vi si contrappone, altrettanto netta e altrrettanto antica, l’immagine del giovane re come un sanguinoso tiranno, un uomo violento, un crudele massacratore di popoli.

Una polarizzazione così forte pare dar ragione all’indifferente pessimismo di Belli. Ma in realtà essa rivela il grave limite della domanda di partenza, che riduce la storia a un tribunale moralistico, e la imprigiona in dibattiti sterili. Il fatto è che, eroe o mostro, Alessandro è un tema ingombrante, che occupa uno spazio molto grande nella memoria e nell’immaginario anche contemporaneo, più di quanto ci si aspetterebbe. E questo implica rifrangenze mobili e contraddittorie. Lo mostra assai bene un libro che esplora le molte ramificazioni della figura del conquistatore, dall’antichità a oggi, e soprattutto indaga gli stereotipi che su di essa si sono stratificati: Pierre Briant, Alexandre Exégèse des lieux communs, Gallimard, pp. 660, € 11,90). L’interazione fra antico e moderno è già nella copertina, con la foto di statua equestre di Alessandro eretta pochi anni fa a Skoplje. Dentro il libro poi ci sono molti «Alessandri» differenti: quello dei Greci e quello dei Romani, quello degli storici e quello della leggenda, quello dei Bizantini e quello dei Persiani, quello del Rinascimento e quello dell’età dei Lumi, quello di Hollywood e quello di Bollywood, e vari altri ancora. Di ognuno viene ripercorsa la storia ma anche delineata la caratterizzazione ideologica: il libro è anche una acuta e utilissima storia degli studi su Alessandro.

Immagini ideologiche

Giacché il tema è tutt’altro che anodino: ne sono prova la lunga controversia tra la Grecia e la Macedonia (FYROM), oppure anche le celebri mostre che girarono il mondo per dimostrare la «grecità» della Macedonia (antica, quella di Filippo e Alessandro). Nei secoli, Alessandro è servito da flessibile icona per molte cause, spesso in contrasto tra loro. E diversamente ideologiche sono le immagini che di lui si sono sviluppate proprio in quell’Oriente ove si svolse la sua avventura. L’eredità di Alessandro non resta la stessa se viene guardata da Samarcanda o Dehli, invece che da Parigi o Londra. Come mostra Briant, ad esempio, il celebre duello tra Alessandro e l’indiano Poros (quello che nella nostra memoria si condensa in una scambio celebre di battute) è stato un momento decisivo per la costruzione d’immagine sia dei colonizzatori britannici in India, sia delle culture locali. Se per gli europei l’intervento dei ‘bianchi’ è stato prefigurato e legittimato dalle campagne di Alessandro, per la cultura indiana al favore per il principe locale Poros si è accompagnata la minimizzazione degli effetti della presenza greca. La breve conquista macedone non ha lasciato alcuna traccia, si argomenta. E questo mostra quanto eurocentrismo ci sia nell’approccio per noi ‘normale’, quando si cercano elementi greci nell’arte del Gandahara, o si ammirano gli editti buddisti in greco del re Ashoka…

Il tema è dunque estesissimo, e la documentazione presa in considerazione è enorme: ma viene dominata con piglio sicuro e scrittura sempre chiarissima. Pierre Briant (1940) arriva a questo libro dopo aver scritto opere importanti, nessuna delle quali, ovviamente, tradotta in italiano: un profilo di Alessandro (1974, 2016), una fondamentale storia dell’impero persiano (1996), una monografia su Dario III (2003), e un panorana su Alessandro nell’età dell’Illuminismo (2012). La lunga consuetudine con il soggetto ha affinato lo sguardo dell’indagatore. Molte epoche della cultura occidentale sono prese in considerazione, per comprendere i modi in cui ci si è appropriati della memoria di Alessandro. Di massima evidenza oggi è l’esito della spinta coloniale, che portò la cultura europea, tra Sette e Ottocento, a immaginare l’Anabasi come archetipo della «missione civilizzatrice» dell’Europa, volta a risvegliare un Oriente torpido e rammollito. In tale idea, l’Impero Ottomano poteva avere il ruolo che era stato della Persia: uno schema che segnò anche lo sguardo degli storici, i quali finirono per pensare davvero l’impero achemenide come il «grande malato»… Il pregiudizio eurocentrico ha agito fino al Novecento inoltrato, portando a sognare persino un Alessandro ansioso della ‘unità del genere umano’. Contro questa utopistica agiografia ha avuto buon gioco la spinta decolonizzatrice. La demitizzazione di Alessandro, che muove in fondo da critiche già antiche, è stata particolarmente forte nel mondo anglosassone. Essa ha anzi raggiunto in anni recenti la forza di una ‘nuova ortodossia’: sembra obbligatorio ormai riconoscere in Alessandro il macellaio dei nativi, l’imperialista che ha distrutto l’idillio degli indigeni, o simili. Altro che white man’s burden!

Paradigmi storiografici

Queste due prospettive si rincorrono con accenti diversi da più di duemila anni, con vario abuso delle fonti e opposta deformazione ideologica. L’esito di tutto ciò è in taluni miti e paradigmi storiografici sopravvissuti fino alle guerre in Afghanistan del nuovo millennio, che ancora qualcuno volle mettere in rapporto con il precedente di Alessandro. Per uscire da tutto questo serve una ‘domanda’ diversa, quale scaturisce naturale dalla prospettiva di Briant. La sua storia personale di ricerca sul mondo achemenide l’ha portato a valutare con attenzione (e senza pregiudizi) la presenza di forti elementi di continuità tra il ‘prima’ e il ‘dopo’ Alessandro. Pochi sembrano essersene accorti, ma tanto il mito quanto l’antimito di Alessandro hanno in comune il fatto di essere stati elaborati senza occuparsi davvero delle reali condizioni della Persia e dell’Oriente, anzi totalmente trascurando le terre e le culture sulle quali Alessandro avrebbe esercitato, a seconda dei casi, una missione di civiltà, ovvero una spietata e coloniale repressione.

Tornare alla storia

Briant riconduce finalmente alla storia. E invita a far uscire i ‘conquistati’ dalla minorità cui li ha costretti l’eurocentrismo, sia quando li ha ritenuti arretrati e primitivi, beneficati dall’arrivo della ‘vera’ civiltà, sia quando per contro li ha idealizzati come dei ‘buoni selvaggi’ travolti dalla furia imperialista macedone (anzi, occidentale tout court). Prima di dire che l’Oriente era torpido, che l’economia era stagnante o l’agricoltura arretrata, bisogna studiare la realtà dell’amministrazione achemenide. Prima di deplorare i massacri ordinati da Alessandro (si è parlato anche di ‘genocidi’) bisogna analizzare i fatti, e comprendere il modo in cui le élites dell’impero persiano si riposizionarono di fronte al nuovo padrone macedone. La Persia non era un luogo di arretratezza, né fu un paradiso violato. Dopo aver mostrato che per studiare Alessandro bisogna riflettere con cura sulla storia europea, che ha prodotto la riflessione storiografica, ma anche meditare sulle altre culture che si sono confrontate con la memoria del conquistatore: ci vogliono solide basi, oltre che sul versante greco-macedone, anche su quello achemenide. Senza queste premesse, non si può sperare di capire, né di fare storia (e nemmeno storia della ricezione): si possono solo costruire ennesimi e dannosi ‘orientalismi’.

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