L’autorevolezza di editori e collane cede sempre più alle sirene del mercato. Andranno dunque avvisati i lettori di Gastone Breccia, Il demone della battaglia Alessandro a Isso (il Mulino, pp. 213, € 16,00). L’autore, assai prolifico, è docente accademico; di taglio accademico è l’editore, classicamente storico l’argomento: né mancano i paratesti più rassicuranti, ossia le note, gli indici e una nutrita bibliografia, quasi per intero costituita – chissà perché – di titoli inglesi. Ma per certo non si tratta di un paludato libro di polemologia, di taglio tedesco (dove già il titolo invogli a invadere qualcosa: J. Kromayer, G. Veith, Antike Schlachtfelder. Bausteine zu einer antiken Kriegsgeschichte, in vari volumi, anni trenta). Il demone parla della battaglia combattuta nei pressi di Antakya, e per farlo si serve di molti mezzi, compresa la vita dell’autore: «Farah. Afghanistan sud-occidentale. Alessandro la occupò nell’inverno del 329 a.C., durante le fasi iniziali della sua lunga campagna (…). Ventitré secoli dopo l’antica regione della Drangiana è di nuovo zona di guerra e io sono in una tenda si una base operativa avanzata delle forze Nato» (p. 63). Sembra lo stile di un giornalista embedded, o di un reportage à la Fallaci. Poche righe dopo (p. 65), ecco invece una scrittura di tono esclamativo: «Alessandro è stato un maestro nel guidare le truppe in combattimento: l’analisi delle sue grandi vittorie mostra come fosse sempre capace di applicare sia il principio della concentrazione della forza sia quello della cooperazione tra armi e reparti differenti».

Tanta marziale assertività, che espone la tesi dell’intero volumetto, può richiamare le altrettanto granitiche, ma antitetiche, certezze di Giulio Beloch, che cento anni fa nella sua autorevolissima Griechische Geschichte riteneva che nelle battaglie campali Alessandro dipendesse completamente dall’abilità del suo generale Parmenione, essendo capace al più di «lanciarsi arditamente alla guida dei suoi cavalieri»: né a suo parere il giovane re ebbe modo di mostrarsi valente generale, perché dopo la morte di Dario non affrontò grandi scontri, ma solo «guerre coloniali». Diffidente (fin troppo) del peso storico delle grandi personalità, Beloch si chiedeva quindi se Alessandro meriti davvero la fama di grande politico e generale. Breccia, pur riconoscendo che della strategia di Alessandro si conosce assai poco, non affronta direttamente il quesito (è forse superato?), ma sembra tornare alla prospettiva dell’antico Arriano (90-180 d.C.), unita allo sguardo militare del moderno N.G.L. Hammond (1907-2001): silenziate le cautele e le riflessioni della storiografia, forse perché troppo analitiche per un racconto efficace, ecco un approccio in fondo positivistico, di fatti e numeri, di topografia e strategia, con notizie di manovre e armamenti desunte dalle fonti e riprese con grande fiducia nei dettagli tràditi. Si apprende tutto sulla sarissa, sull’efficacia della falange, sulla durezza della battaglia, in un incrocio strano tra tecnicalità alla von Clausewitz e effetti da videogame.
Per chi pratichi la storia antica, la questione non è così lineare.

In Curzio Rufo o Plutarco, per esempio, la descrizione di scene esaltanti delle battaglie di Alessandro pare attinta non ai «fatti», ma a repertori retorici e di scuola: purtroppo, tale ipotesi al lettore di questo libro non viene sottoposta, fosse pure per smentirla. E così un discorso di Caridemo a Dario (da Curzio Rufo), costruito tutto di luoghi comuni sulla forza dei veri soldati (qualità in altri testi predicate di Annibale, Giugurta, Catilina, ecc.), viene gabellato per una «verità scomoda» disvelata al re (p. 118), come fossero autentiche parole: questo il trattamento delle ‘fonti’ greco-romane. Viene invece lamentata l’assenza di documentazione relativa alla parte persiana. Invero, l’ampia bibliografia anglocentrica non fa spazio ai fondamentali lavori di Pierre Briant, che hanno reso meno ignoto quel mondo ai non iranisti: soprattutto il suo Darius dans l’ombre d’Alexandre (2003, trad. inglese 2015) sarebbe stato riferimento indispensabile, anche per valorizzare il carattere poliglotta dell’esercito persiano.

La battaglia di Isso, al centro del libro, è preparata con una rapida narrazione della campagna in Asia Minore: come raccomandavano i retori antichi, Breccia s’impegna a fare del lettore uno «spettatore» dell’evento, evocato anche per gli aspetti fisici, fonici, climatici. L’operazione valorizza gli elementi immaginativi, senza distinguere però tra il documentato e il ricostruito. «Il conquistatore è un’ombra titanica al centro della scena»: il piacere del lettore vale questa deriva verso la fiction? Anche il modo in cui è affrontato l’intero rapporto Oriente/Occidente, così centrale nella vicenda di Alessandro e nella ricezione moderna della sua figura (ancora Briant!) suscita perplessità. Che il re abbia vissuto la guerra in Persia come uno «scontro di civiltà», e che ciò apprendesse dalla lettura di Erodoto, appare quanto meno incerto: meglio riferirsi al consiglio forse dato da Aristotele, di governare i Greci «come un egemone», ma di trattare i barbari «come un padrone». L’assenza di questa prospettiva conferisce al libro un sapore, duole dirlo, vagamente «coloniale».

Non vi è dubbio che l’età e il tradizionalismo di chi scrive siano responsabili di tanto spaesamento. Si degusti però: Alessandro «era un uomo rimasto solo col demone che lo accompagnava fin dall’adolescenza e adesso lo possedeva, lo spingeva ad abbracciare il combattimento come espressione estrema della sua cultura, accompagnato dalle ombre degli eroi con i quali era cresciuto» (p. 167). Questo modo di narrare vorrebbe fare di Alessandro un antico (e però vincente) Achab: ma posata la polvere delle frasi a effetto, risulta piuttosto una versione, con note, della trilogia di Valerio Massimo Manfredi. Se tale è per essere il tono dei libri di storia antica dei prossimi anni, non resta che dichiarare la propria incompetenza a parlarne, come Senofonte alla fine delle Elleniche: «fin qui giunga il mio scritto; quel che segue sarà cura di altri».