Due sono i modi in cui possiamo guardare al passato: con nostalgia o con immaginazione. Rimpiangendo il tempo perduto per come ci si siamo convinti che fosse e forse era davvero oppure chiedendoci che ne sarebbe stato di noi qualora le cose fossero andate in modo diverso. Le due possibilità sono ovviamente tutt’altro che disgiunte ed è forse per questo che il nuovo, magnifico libro di memorie di Aleksandar Hemon si compone in effetti di due libri, ognuno con un suo titolo e una sua copertina– I miei genitori e Tutto questo non ti appartiene – ma accorpati in un unico volume (traduzione di Gianni Pannofino, Crocetti, pp. 400, € 20,00). Può anche darsi che i libri siano due perché in due è divisa la vita di chi lo ha scritto, anche se entrambi i libri guardano soprattutto alla stessa metà, la vita prima del trauma patito nel 1992, quando l’allora ventottenne Aleksandar Hemon si trovò nell’impossibilità di tornare a casa dopo un viaggio negli Stati Uniti. Durante la sua assenza, la Bosnia era infatti diventata indipendente in seguito a un referendum, ma i nazionalisti serbi, appoggiati dal governo di Belgrado, non riconoscendo l’esito della consultazione, avevano occupato villaggi e città dando inizio a massacri etnici. La storia è nota: di lì a poco Sarajevo, la città in cui Hemon era nato e cresciuto, finì sotto assedio.

Da un giorno all’altro senza casa
Il giovane bosniaco, entrato in America con il passaporto di un paese che non esisteva più, la Jugoslavia, si ritrovò da un giorno all’altro senza una casa in cui tornare. Cominciò a scrivere in inglese, diventando presto un autore apprezzato, vincitore di premi e borse di studio, collaboratore di riviste come «Esquire» e «The New Yorker», insegnante a Princeton, sceneggiatore. Il suo romanzo più noto e probabilmente anche il migliore, Il progetto Lazarus, risale al 2008 e aveva quale protagonista un evidente alter ego che spera di placare i propri fantasmi ricostruendo la vita di un altro immigrato, Lazarus Averbuch, giunto oltreoceano un secolo prima, dopo essere scampato ai pogrom dell’Europa orientale.

L’esito era un raffinato gioco di specchi in cui presente e passato, la vita del narratore e quella del narrato, si riflettevano l’una nell’altra con un’ironia amara e una felicità di scrittura che facevano pensare a Nabokov. Un gioco di specchi è anche questo suo memoir a due facce. Anche l’intento è analogo: porre a confronto i propri ricordi con le storie di qualcuno che è venuto prima, in questo caso i genitori costretti a rifarsi una nuova vita in Canada.

Torna ancora alla mente Nabokov, quello di Fuoco pallido, che sebbene fosse un’opera di pura invenzione univa due libri in uno e parlava di una «scossa simile alla sincope», quella dell’esilio in terra d’America, frattura generatrice di molte sofferenze ma anche di nuove possibilità e di una prospettiva inedita. È in effetti proprio questo, prima ancora di qualunque affinità di stile, ad accomunare i due autori: la speciale natura del loro sguardo retrospettivo, il modo in cui la nostalgia della persona sradicata finisce con l’assumere il carattere di un’ipotesi anziché i toni ben più comuni del rimpianto. E più il tempo passa, più il passato diventa incerto, una sorta di ipotesi. «Ora che ho superato i cinquant’anni» scrive Hemon, «mi sembra di ricordare soltanto cose che ho già ricordato in precedenza». E di cui ha scritto in precedenza, potremmo aggiungere, perché questo doppio libro non è che un nuovo capitolo di un lavoro di scavo e speculazione iniziato da tempo.

Nel Progetto Lazarus la memoria si mascherava da romanzo, in altre opere si è invece palesata senza infingimenti, sebbene non abbia molto senso distinguere tra un modo e l’altro. Più significativo è che tutti questi libri abbiano sempre un che di disperso o sconnesso, come fossero un inventario di cocci rinvenuti nel passato, lasciati alla loro condizione di frammenti e mai ricomposti in un vaso perché i vasi sono più di uno.

Ciò che conserva una sua unità restando un riferimento imprescindibile è Sarajevo, vista sempre come un paradiso perduto che cecchini e carri armati hanno devastato. Quando lo scrittore chiede alla madre ottantenne se, tutto considerato, ritiene di avere avuto una bella vita, la donna risponde di no, perché la guerra si è schiantata su di lei come un meteorite.

Una via di uscita
La vita dei genitori precedente alla catastrofe è il racconto di due persone che in gioventù hanno potuto lasciare i rispettivi piccoli e miseri villaggi, trasferirsi in città, studiare, lavorare in aziende dello stato e vivere in case sovvenzionate anch’esse dallo stato. La Jugoslavia di Tito non era forse il migliore mondo possibile, ma rappresentava pur sempre una via di uscita da una storia di guerre etniche; era un paese in cui il singolo individuo poteva pensare al futuro con ottimismo o almeno sentirsi parte di un progetto collettivo. «Sopravviveva grazie a una modesta borsa di studio, con pochi soldi e poche cose. Però si divertiva, e ancora le piace rievocare il bello della giovinezza e della compagnia, della consuetudine di condividere tutto» racconta lo scrittore parlando sempre della madre e di un tempo in cui si aveva «la sensazione che, malgrado l’evidente povertà, non mancasse nulla».

Dal canto suo il figlio, perlomeno da adolescente, non aderisce con lo stesso entusiasmo agli ideali di quella società. Lo vediamo sedicenne litigare con i genitori citando i Sex Pistols e credersi una specie di giovane Holden bosniaco. È però soltanto un lato del ragazzo, il lato mostrato in uno dei libri, I miei genitori. L’altro, Tutto questo non ti appartiene, offre un quadro diverso. È quasi per intero dedicato all’infanzia e alla giovinezza dello scrittore, in un susseguirsi di iniziazioni: la prima volta che è stato picchiato, il suo primo amore, i primi sogni, le prime disavventure.

Qui la narrazione non procede più come un flusso continuo, ma per brevi scene indipendenti, simili a istantanee della memoria, in cui il sentimento della nostalgia prende il sopravvento. Andare in campagna a tre ore Sarajevo era come spostarsi ai confini del mondo conosciuto. Un succo di mirtillo poteva sembrare la più dolce delle pozioni solo perché era stato rubato nel bar di un albergo. E via di questo passo.

Un certo fatalismo
Malgrado la sua seconda vita di profugo naturalizzato possa dirsi una conferma dell’esistenza del sogno americano, Hemon sembra comunque voler dimostrare che c’è stato anche un sogno jugoslavo dal quale non avrebbe voluto staccarsi. Si respira un certo fatalismo in Tutto questo non ti appartiene, la sensazione che non ci sia scampo alla fine delle cose e che raccontarle non sia che un palliativo, un superare i traumi attraverso la nostalgia, costruendosi un passato ideale in cui non si è sofferto più di tanto. Tra le pagine di I miei genitori, Hemon guarda il passato con gli occhi del figlio di mezza età dandogli un senso, ricostruendo e immaginando anziché rimpiangendo: trasforma la sensazione in un fatto accertato, ed è arduo per il lettore decidere cosa sia preferibile, se la sensazione che non ci sia scampo alla fine o il farsi una ragione del fatto che quella fine è ormai alle spalle.