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Alejandro Zambra, l’irruzione di un neonato nello spazio della scrittura

Alejandro Zambra, l’irruzione di un neonato nello spazio della scritturaCecilia Vicuña, «Eman si pasión / Parti si pasión», 1974

Scrittori cileni Ironico e minimalista, «Messaggio per mio figlio» conferma la ricerca di Alejandro Zambra di nuovi registri formali, tra versi, meditazioni, rimandi metatestuali e ripetuti sconfinamenti del saggio nella narrativa e viceversa: da Sellerio

Pubblicato 8 mesi faEdizione del 4 febbraio 2024

Benché contraddittorie, sono vere entrambe le osservazioni dei numerosi e spesso entusiasti recensori di Messaggio per mio figlio di Alejandro Zambra (eccellente traduzione di Maria Nicola, Sellerio pp. 230, euro 16,00) che all’uscita in lingua spagnola ne hanno parlato come di un libro inclassificabile, tentando allo stesso tempo di etichettarlo come aderente al filone dei «diari di paternità», speculare a quello sulla maternità discussa, analizzata, esaltata o rifiutata da un congruo numero di autrici contemporanee. La vocazione tassonomica del critico deve arrendersi davanti a questo testo frammentario e eterogeneo, che si apre con un taccuino di appunti sul primo anno di vita del figlio, cui seguono bozzetti e aneddoti in cui a volte il bambino ha un ruolo di primo piano e a volte si limita a stagliarsi sullo sfondo, tra inserti in versi, racconti di impianto tradizionale e squarci saggistici.

Nuovo filone narrativo
A conclusione del volume, un breve «messaggio per il figlio» giustifica il titolo italiano (l’originario Literatura infantil si deve alla scoperta entusiasta e un po’ ingenua dei libri per bambini da parte dell’autore, ma anche alla sua certezza che «tutta la letteratura in fondo è infantile») e sancisce l’ingresso di Zambra in una cerchia sempre più ampia di scrittori che raccontano la dimensione paterna a partire da un costante accudimento quotidiano, un tempo esclusivo appannaggio materno: si sono aggiunti recentemente alla lista, nel solo ambito latinoamericano, Un hijo cualquiera del guatemalteco Eduardo Halfon (Libros del Asteroide, 2023), e Ombelicale dell’argentino Andrés Neuman (in uscita da Einaudi nella traduzione di Silvia Sichel) autore anche di Pequeño hablante (Alfaguara 2024), imperniato sull’apprendimento e l’uso del linguaggio da parte del figlio.

Apparsi più o meno nello stesso periodo, sono opera di genitori debuttanti e «tardivi», travolti da un autentico rapimento amoroso e insieme attenti al modo in cui la presenza di un bambino piccolo influisce sul loro lavoro («Un figlio, di colpo, mi costringere a scrivere da padre», sottolinea Halfon) indirizzandoli, come richiede il conflitto tra tempo di cura e tempo di scrittura, verso la brevità e il frammento. Gli esiti sono assai modesti per Halfon, che accumula frasi a effetto, e ancora peggiori per Neuman, che si abbandona a una prosa fin troppo lirica, mostrandosi pericolosamente incline a introdurre una vera e propria mistica del bebé.

Zambra, invece, nell’ironico e minimalista Messaggio per mio figlio prosegue con successo la ricerca di nuovi registri formali che da sempre lo caratterizza, tra riflessioni sul linguaggio, vasti riferimenti metaletterari, mutazioni eterodosse e continui sconfinamenti, dal saggio alla narrativa e viceversa.

I temi della paternità e dell’infanzia, già affioranti in buona parte delle sue opere, dall’esordio sino al romanzo più recente, Poeta cileno (Sellerio 2021), non fanno che accentuare l’intreccio fra autobiografia e finzione, e rimandano inoltre a un testo parallelo e altrettanto inclassificabile, Linea nigra (La Nuova Frontiera, 2022), costruito dalla scrittrice messicana Jazmina Barrera attorno al concepimento e alla nascita di Silvestre, figlio suo e di Zambra.

Due libri sul medesimo bambino, dunque, senz’altro dissimili (più conflittuale e a tratti dolente quello di Barrera, più gioioso e giocoso quello del suo compagno), ma che osservano con pari minuzia le conseguenze dell’intrusione infantile nelle rispettive identità di scrittori e, sorprendentemente, concedono all’altro genitore spazi irregolari ed esigui.

Letti uno dopo l’altro – prima il libro di lei, che dà risalto alla gravidanza, poi quello di lui, che inizia quando Silvestre è al mondo da venti minuti – si rivelano però abbastanza complementari da presentarsi come una sorta di album di famiglia, o un inedito esempio di «letteratura genitoriale».

A convincere davvero, in Messaggio per un figlio – diviso in due segmenti ben definiti –, non è la parte riservata all’esplicita adorazione che il padre manifesta mentre, non avendo una tradizione cui affidarsi, cerca giorno per giorno di crearsene una, bensì lo Zambra amato dai lettori di Storie di alberi e di Bonsai (Sellerio, 2018) o dell’audace Risposta multipla (Sur, 2016), che torna a emergere nel secondo segmento. Brillano, in queste pagine, un’acuta ed esilarante «Introduzione alla tristezza calcistica», o racconti come «Il bambino senza papà. Parolacce» e «Ladri con gli occhi azzurri», dove l’autore compare in veste di figlio e rilegge la propria infanzia e adolescenza, esaminando in un’altra luce il rapporto con un padre mai compreso fino in fondo, mai davvero «visto».
È qui che Zambra lascia infine entrare il vento dell’esterno, evocando luoghi meno chiusi di quelli riservati a un insistito lessico famigliare e concedendo una boccata d’aria al lettore, un po’ stordito sia dal resoconto della pandemia (c’è anche quello) sia dalla celebrazione un tantino soffocante del rapporto paterno-filiale.

Al di là dell’umorismo gradevole e leggero, o del racconto affettuoso, si coglie nella prima parte del libro un certo eccesso di zucchero; dietro l’ostentata umiltà davanti al bambino, creativo maestro di vita e portatore di nuovi linguaggi, si intravede il sottile compiacimento di chi contempla sé stesso mentre va in scena nelle meritorie vesti di «nuovo padre»; e l’esplicito desiderio di porsi come memoria di tutto quanto il bambino non potrà ricordare, una volta cresciuto, insinua qua e là il sospetto di una fuggevole affinità tra il resoconto paterno e il furore fotografico che oggi imprigiona i figli di chiunque in un’infinita sequenza di immagini da esporre agli sguardi altrui.

Un ripiegamento
Cos’è cambiato da quando, in Modi di tornare a casa (Mondadori, 2013), Zambra raccontava la propria infanzia e insieme quella della sua generazione, disegnando la mappa di un passato comune, vissuto all’ombra della dittatura di Pinochet e dei silenzi dell’età adulta?

Tutto, com’è inevitabile; ma è difficile non restare colpiti, leggendo il suo multiforme e amabile ultimo libro, dalla perdita di un’apertura e di un respiro più ampi, sostituiti da un totale ripiegamento sull’intimità familiare, intesa come estremo baluardo e ultima possibile felicità. Una sfida non da poco, per un autore così «letterario», quella di civettare apertamente con il sentimentalismo e di evitare al contempo, grazie alla qualità della scrittura e della costruzione testuale, di caderci dentro e non riemergerne più.

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