Tutta l’opera di Alejandra Pizarnik può essere letta come un tentativo letterario di sottrarsi. E «sottrazione» (o ancora di più, «assenza») è una parola profondamente alejandrina (aggettivo coniato dall’autrice): a una prima lettura, la parole dei suoi scritti in prosa può apparire come costruita sul progetto di una ricerca di «spazio», sull’esigenza di abbreviare lo iato tra parole e cose, grazie soprattutto al suo attingere nel corso degli anni ad una langue ipotetica e immaginifica. Guardando al corpus della sua opera in modo unitario – Pizarnik, nata nel 1936, ha licenziato tra il 1955 e il 1971 sette raccolte di poesie, ma ha lasciato anche un’ampia produzione di prose, diari, e lettere – l’ossessione autoriale sembra piuttosto consistere nella pretesa di dare forma a una figura che richiede lo sguardo dell’altro per definire i suoi contorni.

Da qui nasce, soprattutto nella produzione in prosa, quel laboratorio di eccessi linguistici che vorrebbero modellare il «manichino dell’io» (nella definizione data da César Aira in un suo saggio dedicato all’opera di Pizarnik) anche a costo di dissonanti grevità.

Una chiave di accesso fondamentale a questa complessa costellazione letteraria dell’assenza sta nel voluminoso carteggio che Pizarnik intrattenne con moltissime personalità del mondo delle lettere ibero-americano e francese. Dopo aver vissuto a Buenos Aires e aver pubblicato i primi libri di poesia fin da giovanissima, trascorse a Parigi quattro anni – tra il 1960 e il 1964 – di febbrili relazioni di amore e di profonda amicizia, con poeti e artisti che accolsero e ricambiarono la sua voracità intellettuale.

Un saggio di quel lascito è stato tradotto nella elegante raccolta epistolare L’altra voce, (Giometti & Antonello, traduzione di Andrea Franzoni, che cura il volume insieme a Fabio Orecchini, pp. 188, € 24,00), dove sotto un titolo felice sono raccolte lettere scritte da Pizarnik durante tutta la sua vita, per un’edizione concepita sul calco – purtroppo estremamente parziale – di quella argentina di Lumen, nella quale l’epistolario è disposto in ordine di destinatario e, ove possibile, cronologico.

Le lettere, destinate tra gli altri a Silvina Ocampo, Julio Cortázar, Cristina Campo, sono spesso attraversate da giochi di parole e battute anche quando lambiscono l’intimità o contengono dichiarazioni di poetica, e rimandano idealmente l’eco di un frammento di Roberto Juarroz – poeta cardine del secondo Novecento argentino, autore di una unica sequenza lirica composta nel corso di tutta la vita, Poesía vertical – con il quale Pizarnik condivise la passione (rivelatrice) per Artaud, di cui entrambi furono eccellenti traduttori: «A volte sembra/che siamo al centro della festa./Tuttavia al centro della festa non c’è nessuno./Al centro della festa c’è il vuoto./Ma al centro del vuoto c’è un’altra festa)».
Dopo una vita da insonne e una morte troppo precoce, Alejandra Pizarnik riposa sotto l’epitaffio che sentì suo fin dal primo momento, preso dall’amatissimo Michaux di Ecuador e che ricorre nelle sue lettere decine di volte: «Non siamo stati vigliacchi/abbiamo fatto quel che abbiamo potuto».