Alda Grimaldi (classe 1919), la prima donna regista della Rai, è una donna divertente, elegantissima, con una voce che potrebbe essere prestata senza problemi ancor oggi al doppiaggio, con una verve inusuale per una che ha attraversato il secolo breve tra i marosi della guerra, dell’isolamento generato dai lutti, di una società che sembra oggi indifferente agli aneliti di rinnovamento di un’epoca culturalmente innovativa.

Possiamo dire che la sua vita è stata quasi leggendaria. I suoi insegnanti al CSC si chiamavano Pasinetti, Barbaro; i suoi compagni di corso erano De Santis, Antonioni, Germi.
Certe cose, l’importanza delle persone e delle stagioni le scopriamo sempre dopo. Allora eravamo tutti studenti desiderosi di farci largo ma praticamente sconosciuti. Ero particolarmente amica di Peppe De Santis che era l’aiuto di Visconti. Fu lui ad affibbiarmi il vezzeggiativo ‘Dada’. Fu una scuola incredibile.

Monicelli era particolarmente critico con Chiarini per via dei suoi trascorsi fascisti.
Ma, sa, io non mi curavo della ‘fascisteria’ di Chiarini. Mi bastavano due nomi come Barbaro – che insegnava teoria- e di Pasinetti. Si poteva sopravvivere benissimo.

Jean Renoir, in visita al Centro, le fece dei bellissimi complimenti…
Sì,mi disse che con le mie gambe avrei fatto molta strada…ma io con le gambe preferii camminarci. Chiesi un permesso al Centro per seguire le riprese di La carrozza d’oro e per qualche giorno seguii la lavorazione del film direttamente sul set.

Mi parla di Visconti?
Guardi, in un certo senso Visconti mi adottò. Fui io a battere la sceneggiatura di Ossessione a macchina, a casa sua. Lui rimaneva solo durante le soste ed io con lui. Fu lui a farmi comprare dei mocassini particolari a Ferrara, dove aveva acquistato anche i suoi. Tempo dopo -facevo del doppiaggio a Milano- durante l’ennesima trasferta da Torino il treno fu bombardato. Mi salvai a malapena fuggendo nei prati. Quando tornai sul treno mi accorsi che i miei mocassini si erano rotti all’altezza dell’alluce.

E poi, in Rai, arrivarono Umberto Eco, Furio Colombo -sarebbe da rileggere di Colombo «I ragazzi di via Po»-, Vattimo insieme ai quali metteste in cantiere «Orizzonte», una sorta di TV7 ante litteram.
Il ricordo più vivido è legato a Eco. Era un ragazzo molto divertente e molto, molto spiritoso, assolutamente lontano dal personaggio del professore paludato e serioso che gli si volle affibbiare.

Le faccio dei nomi in ordine sparso: Curzio Malaparte, Arthur Miller, Brigitte Bardot, Marlene Dietrich, sono solo alcune delle persone che lei incontrava a casa di Raf Vallone a Sperlonga quando andava a trascorrerci le vacanze. Beh, questi nomi suscitano molte curiosità. Che può raccontarmi di quella stagione?
Ma vede, come le accennavo prima, solo oggi, a posteriori, abbiamo un quadro completo del valore e dell’importanza di certe persone. Ovvio, molte di loro erano già famose ma posso assicurarle che nessuna di queste, e di altre ancora, era supponente. Per usare un’espressione corrente, nessuno ‘se la tirava’, a riprova che le persone di livello sono solitamente umili. Certo, a ripensarci, sedevamo a tavola con Arthur Miller, passavamo il sale alla Dietrich e così via dicendo ma l’atmosfera era, se non di goliardia, certo di rilassatezza, non esisteva affatto l’atmosfera del tipo ‘lei-non-sa-chi-sono-io’. E poi il collante del padrone di casa, di Raf, era di quella pasta che metteva tutti a proprio agio. Ovviamente, per lo spessore degli ospiti, il dialogo era sempre formativo. Si poteva pure parlare del tempo o di come era buono un certo piatto ma gli argomenti attenevano al nostro mestiere, al cinema, alla letteratura.

Ha conosciuto i pittori torinesi come Paulucci, Casorati, Menzio?
Sì, certamente. Ho avuto soprattutto rapporti con Casorati. Con Lucentini, lo scrittore, c’era un rapporto fraterno. Era la persona più buona che avessi mai incontrato. Quando si suicidò si fecero, come capita, molte illazioni ma il motivo era da ricercare nella sua malattia ad uno stadio terminale. Ero di casa pure a Dogliani, da Giulio Einaudi. Mio marito era il medico del padre di Giulio e questa era un’occasione in più. Inoltre Ciccio era consulente della casa editrice, era sempre presente alle famose riunioni del mercoledì.

Come sottacere la sua amicizia con Cesare Pavese?
Certo, certo, come no. Eravamo tre amici inseparabili: io, Cesare e Raf Vallone. Vallone non legava con Calvino, troppo diverso forse caratterialmente, noi tre eravamo più ‘compagnoni’. Eravamo inseparabili e il nostro punto di riferimento era il ristorante «Le tre galline», ancora in voga. D’estate chiudeva i battenti per aprire sulle rive del Po. Raf nasce come amico di mio marito, Giovanni Rubino detto ‘Ciccio’. Mio marito lavorava alle Molinette, io e Cesare lo accompagnavamo spesso durante le visite. Mi ricordo, era già autunno, quando aspettando che Ciccio uscisse, Cesare raccolse da terra una foglia che misi subito in un libro che avevo con me. Per anni non ricordavo più dove avessi messo quel libro, m’è tornato fra le mani giorni fa ed ho ritrovato la foglia…

Com’era Pavese?
Anche qui, lungi dall’essere il musone che hanno descritto, era invece un compagno ilare, allegro, con uno humour molto inglese, molto raffinato. Potrei dire: un ‘burbero allegro’. Fu lui a farmi conoscere la letteratura americana, soprattutto Fitzgerald. Una cosa strana, ci davamo sempre del ‘lei’. Non mi chieda perché, faceva parte di un certo aplomb torinese. Lui veniva ogni giorno alle 14, puntuale come un orologio, a casa nostra per il caffè. Abitavamo vicini all’Einaudi. In un certo senso ci aveva adottato. Diceva sempre che la famiglia uno non se la può scegliere «…e voi siete la mia famiglia», diceva.

Come andò esattamente con l’americana?
In modo più semplice di quanto non si pensi. Le sorelle Dowling arrivarono in Italia ed io legai subito con Doris. Constance (Connie) veniva da una lunga relazione con Elia Kazan che l’aveva poi scaricata; era sposato e non aveva alcuna intenzione di impegnarsi con lei. In Italia divenne l’amante di Andrea Checchi e Cesare ne fu subito rapito ma lei non gli diede mai nulla per cui sperare. Accadde poi di organizzare una gira a Cervinia e mancava il quarto, così partimmo io, mio marito, Connie e Cesare . Una cosa che nessuno sa è che Pavese fuggì da Cervinia prima del tempo e rimanemmo tutti un po’ disorientati. Non credo affatto, se è questo che vorrebbe chiedermi, che Pavese si uccise per lei. Le ragioni erano altre.

Ipotizzo che concorresse l’insuccesso che gli venne dal cinema.
Potrebbe essere, assolutamente. Lui aveva scritto dei soggetti e delle sceneggiature. Li fece girare, contattò De Sica ed altri ma non riuscì a sfondare.
Infondo, la parabola letteraria di Pavese si esaurisce con «La luna e i falò». Cercò altri mezzi d’espressione per diversificare la sua arte ma in lui vita e scrittura combaciavano. Forse pensò che, com’era giunto al termine il suo ‘valere alla penna’, si conchiudeva pure la sua vita.
È una riflessione profonda e non è così lontana dalla realtà.

Quando lo vide per l’ultima volta?
Esattamente il giorno prima che morisse. Andammo in piscina insieme e la cosa che mi colpì -anche se a queste cose si pensa sempre dopo- fu che nuotava, come posso dire? furiosamente. Ci separammo nel pomeriggio, io avevo un appuntamento dal dentista per poi rivederci la sera. Lui ci invitò all’hotel Roma e mi fece trovare una torta per il mio compleanno con il mio nome scritto sopra, «Viva Dada». Era come sempre, di buon umore. L’unica cosa che disse e che mi allarmò un poco fu: « Debbo arrivare vivo a domenica…» Mi rimane un ricordo, vivido, incancellabile. Poco prima, durante una sua visita, aprì il Macbeth al verso: «Tomorrow, tomorrow and tomorrow». Lo declamò più volte e, uscendo, lasciò il libro aperto a quella pagina.