Nel 438 a. C. al Teatro di Dioniso di Atene va in scena l’Alcesti di Euripide. È la tragedia più antica che abbiamo di lui. Fu rappresentata al quarto posto della tetralogia drammatica che comprendeva tre tragedie e un dramma satiresco. La tragedia ebbe un’immensa fortuna nel secolo dei lumi. Alfieri la tradusse in versi italiani (traduzione bellissima) e la riscrisse togliendo dai personaggi quei lati moralmente discutibili che disturbano lo spettatore moderno.
Raniero de’ Calzabigi scrive il libretto per Christoph Willibald Gluck, per la rappresentazione viennese del 1767. Gluck riprese il soggetto per Parigi nel 1776. E quest’edizione si è vista al Teatro dell’Opera di Roma. La vicenda è lineare. Apollo ha ottenuto che il re tessalo Admeto, suo ospite, eviti la morte se qualcuno si offre di morire al suo posto. In Euripide il padre e la madre di Admeto si rifiutano di morire per lui. Si offre sua moglie Alcesti. Tanto Alfieri che Gluck espungono dalla vicenda ogni motivo comico, che in Euripide è il personaggio di Ercole, sbruffone, ubriacone. Alfieri e Gluck ne rispettano invece il carattere eroico. Ma è colui che scioglie la vicenda, e strappa Alcesti alla morte, combattendo con Tanatos.

IL TRAGICO antico riflette sul rapporto dell’uomo con la morte. I drammaturghi moderni approfondiscono i motivi del sacrificio di Alcesti e disegnano una figura dolcissima, sensibilissima di donna. Admeto pensa di uccidersi, commosso dalla dedizione della moglie. Ercole, strappandola alla morte, risolve la vicenda. Il dramma antico propone una domanda universale sul senso della vita. Il dramma moderno indaga i labirinti dell’amore. E di questi labirinti Gluck è un conoscitore sublime. Se nell‘Orfeo ed Euridice la dimensione mitica è ancora presente, nell‘Alceste a prevalere è la psicologia, la tragedia dei sentimenti. Gli dei sono lontani, incomprensibili. Com’è incomprensibile la morte, e ancora di più la vita. La voce terribile dell’Oracolo rappresenta musicalmente questa incomprensibilità: la vita e la morte sono inspiegabili, spiegabili restano solo i sentimenti. Sembra un saggio di Didérot.
Lo spettacolo viene dal teatro di Monaco di Baviera. Il regista e coreografo Sidi Larbi Cherkaoui costruisce uno spettacolo che proietta sulla scena le geometrie quasi astratte, equilibratissime, della musica. Pochi pannelli disegnano muovendosi il cambio di scene e attori, coro e danzatori mimano con i gesti il sentimento che la musica raffigura: coincidenza perfetta tra gesto e azione, musica e dramma. Che è il senso della cosiddetta «riforma» di Gluck: costruire con la musica un’azione che sia la musica stessa a designare. In altre parole far corrispondere alla tragedia di parola una tragedia musicale. E non a caso la riforma trova il suo spazio più adeguato proprio a Parigi, dov’era nata la tragédie lyrique. A questa intuizione di un’unità inscindibile di musica, gesto, scena, parola, che è l’idea drammaturgica di Cherkaoui, il direttore Gianluca Capuano, e tutti gli interpreti si adeguano con meravigliosa duttilità. Veramente sulla scena la musica si fa teatro, il gesto si fa musica, il canto si fa emozione o, meglio, riflessione sull’emozione. Del resto è proprio ciò che prevede Gluck. Le «pantomime» inserite nell’azione, non sono un diversivo, un divertimento, ma parte dell’azione.
Gli interpreti andrebbero citati tutti per la loro omogeneità e per il lavoro d’insieme. Ma, oltre all’attenta, sensibilissima concertazione di Capuano, non si può dimenticare la nobile figura che Marina Viotti disegna di Alceste. La voce non ha grande spessore, o almeno così sembra, ma è ricca di molteplici sfumature espressive. Insomma, recita cantando, che è ciò che Gluck le chiede. Commovente il travagliato Admeto di Juan Francisco Gatell. Luca Tittoto è bravissimo a impersonare due figure così diverse come il Grande Sacerdote ed Ercole. Roberto Lorenzi presta la voce terribile all’Oracolo.

MA TUTTI, il coro del Teatro, corifei, danzatori, contribuiscono all’efficacia di una rappresentazione in cui tutto si fa teatro, la musica, la danza, la recitazione, la scenografia mutevole e mai statica: impressionante la scena dell’ingresso agli inferi. Il pubblico ringrazia con calorosi applausi. Si è sentito qualche fievole buu, ma non si capisce diretto a chi e motivato da che cosa.