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Alceste Angelini traduttore dei poeti greci

Divano La rubrica settimanale a cura di Alberto Olivetti
Pubblicato circa 7 ore faEdizione del 4 ottobre 2024

Alceste Angelini (1920-1994) tra il 1941 e il 1944 pubblica alcune delle sue traduzioni dai poeti greci. Le raccoglie nel 1946, accanto alle coeve sue prove poetiche, in Prime poesie e traduzioni dal greco, presso l’editore fiorentino Vallecchi. Questo accostamento avverte il lettore che traduttore e poeta si offrono come coincidenti, traduzioni e composizioni afferiscono ad un medesimo ceppo lirico.

La antica parola greca è da Angelini plasmata, nel suo renderla italiana, facendo ricorso ad un lentissimo procedimento di conferimento ed assimilazione di senso. Quasi lasci trascorrere ogni singolo vocabolo attraverso gli strati, uno dopo l’altro, della sua interiorità là dove si decanta la peculiare sensibilità di Angelini, capace di far emergere con oculatissima ponderazione ciascuna antica parola per modo che in essa, e del greco di provenienza e dell’italiano raggiunto, si conservi il massimo rispetto. Angelini solo dopo una valutazione puntigliosa e dopo una accurata considerazione delle alternative possibili, perviene alla sua scelta. Essa nasce da lunghe riflessioni svolte per raccordare insieme filologia e poesia.

Bene si intende, allora, come poi il singolo vocabolo possa e debba inserirsi pianamente nella successione delle parole presenti nel contesto e nel costrutto dell’antico componimento. Contesto e costrutto che Angelini intende trasferire conservandone i connotati, ovvero la connessione logica, la tonalità sentimentale, la modalità ritmica resa non nella imitazione passiva dei metri, ma nell’andamento del pensiero che il componimento greco racchiude. Ogni vera poesia custodisce non solo un mondo, ma prima, e ancor più, rivela la vivente umanità, l’humana conditio della quale tutti partecipiamo.

Credo che la virtù inarrivata di Angelini traduttore dei testi di Saffo o di Ibico, di Mimnermo o di Callimaco stia proprio in questo trasportare, di quegli uomini della Grecia, la forma del pensiero, il suo integrale svolgersi fissato nel verso e offerto da Angelini nella sua intatta costituzione. Dove la vibrazione emotiva resta salda nella sua originaria latitudine mentale, noetica.

Da qui, credo, quel carattere definito, fermo, asciutto (una inclinazione ad attenersi all’ambizione oraziana d’una perennità della poesia che trapassa le epoche?) del suo volgere la lingua greca nella lingua italiana, del suo porgere a noi dinnanzi, Angelini, l’opera intatta che il tempo non ha eroso. Netta, senza le aggiunte, le venature, le suggestioni che una recezione meno avvertita e rigorosa, e invece filtrata attraverso moduli e convenzioni letterarie seriori, espone a travisamenti, restauri impropri, fraintendimenti. L’opera di poesia che ha passato i millennî è così condotta al nostro presente integra, attraverso il tempo storico e i suoi molteplici decorsi, perché il lettore la riconosca intimamente sua, a suo perfetto agio nel proprio attuale tempo interiore, umano. A vantaggio di quanto vengo sostenendo sul tradurre di Angelini molte verifiche è possibile fare ponendo i suoi preziosi raggiungimenti a fronte dei risultati ottenuti, sui medesimi testi, da altri traduttori a lui contemporanei. E primo il Salvatore Quasimodo dei Lirici greci del 1940, che segna una data nella vicenda della poesia italiana del Novecento.

Angelini dà alle stampe nel 1993 Mimnermo e altri poeti greci. I quattordici frammenti di Mimnermo avevano avuto una recente (e ineccepibile) traduzione di Filippo Maria Pontani (in Elegia greca arcaica, Einaudi, 1972). Dopo quanto ho fin qui argomentato, a beneficio del lettore, faccio seguire alla traduzione di Pontani d’un brano celebre di Mimnermo (descrive il sonno del Sole quando cala la Notte) quella di Angelini.

«Dorme e va, per vie d’acqua, sopra un letto grazioso -/una gran coppa di mano d’Efesto,/d’oro pregiato, che si libra a fiore d’onda:/è un volo, dal paese delle Espèridi/all’Etiopia, dove il carro celere e i cavalli/stanno, fino al baleno dell’Aurora».

«Un vaghissimo letto/aureo profondo alato,/che Efesto lavorò con le sue mani,/rapido lo trasporta sopra l’onde/dall’orto dell’Esperidi/fino all’arida terra d’Etiopia,/dormente: i suoi cavalli/sono qui fermi, aspettano/l’alba caliginosa»

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