Alias Domenica

Alberto Moravia, varia umanità

Alberto Moravia, varia umanitàAntonio Donghi, «Donna per le scale», 1929, Firenze, collezione Banca Monte dei Paschi di Siena

Nelle lettere giovanili edite da Bompiani lo scrittore, uscito fuori dalla noia, inizia a tessere amori, libri, amicizie...

Pubblicato quasi 9 anni faEdizione del 6 dicembre 2015

La parte della vita di Moravia che va dagli anni del «bambino Alberto» – come suona il titolo di una intensa ricostruzione di Dacia Maraini – a prima di Agostino è l’età di una precoce e quasi forzata maturità, segnata dal caparbio voler risolvere in un punto di forza quella che, nello svolgersi della biografia, era una fragilità: la costrizione ad essere appartato per le vicende della tubercolosi ossea sofferta dal 1915 al 1925. Quegli anni furono riempiti prima da giornate di noia e lettura; poi, congedata la malattia, da una specie di euforia, trasmessa alla scrittura dei primi resoconti di viaggio. Una specie di preparazione, psicologica e culturale, all’attività di scrittore, che intanto maturava in racconti variamente notevoli, a partire da un capolavoro come Inverno di malato. Il 1929 fu infine l’anno della maturità precocemente raggiunta: l’anno degli Indifferenti, pubblicati a nemmeno ventitré anni: sempre scontento di sé, l’autore stesso in una lettera del 1932 dirà il romanzo essere «sentimentale, romantico, piatto, di molto effetto e di poca vera sostanza, tirato via nei particolari e sconnesso nell’insieme». Brusco e franco come parlasse di qualcun altro, ma non per questo buon giudice di sé.
Intorno ai racconti e ai romanzi, Moravia tesseva contatti di varia umanità, dei quali fino agli anni tardi ricordò la portata in interviste e testimonianze e che adesso, grazie a un imponente lavoro di ricerca in sedi disparate, si presentano con precisione da lettere scritte per esser tali, senza alcuna preoccupazione di disegnare un’autobiografia ideale: senza manipolazioni e confessando, in una delle missive a Chiaromonte: «sono un cattivo epistolografo e non ammetto di far per lettera quelle confidenze che non farei a voce». Confidenze a parte, viene così scrostata quella patina di imprecisione che sempre deposita il passare del tempo. Il volume – un’anticipazione ragionata di quel che sarà l’epistolario completo – si intitola Se è questa la giovinezza vorrei che passasse presto Lettere 1926-1940, con un racconto inedito (Bompiani, pp. C-423, euro 22,00); lo ha curato e annotato con misura tenacia e pertinenza Alessandra Grandelis, mentre il bell’inserto iconografico si deve alle cure di Nour Melehi; le lettere si integrano con quelle famigliari, destinate ai Rosselli, pubblicate nel 2009 a cura di Simone Casini, che vanno dal 1915 al 1951 (Lettere ad Amelia Rosselli). L’introduzione di Alessandra Grandelis, insieme saggio biografico-culturale e schedario, sulla pista lasciata dalle lettere non solo ricostruisce i rapporti intrattenuti dal giovane Moravia, ma disegna per tratti funzionali le figure degli interlocutori. Dunque è tutto un mondo che prende vita: un’élite intellettuale laica di apertura europea, ma anche una comunità di affetti diversificati, che vanno dalle amicizie alle passioni amorose.
Il primo degli amici della vita nuova è Andrea Caffi, già menscevico e ora cosmopolita e illuminista, sempre socialista, mai integrato. Conoscitore della cultura europea, Caffi legge Gli indifferenti prima della stampa ed è tra gli incontri formativi del giovane Moravia, che a Parigi nel 1932, memore dell’importanza di quanto appreso alla sua scuola umana, gli presenta Nicola Chiaromonte, in un’Europa alla vigilia di un crollo politico e morale che indurrà a scelte radicali e al ripensamento dell’idea stessa di civiltà. Sul versante privato il nome di Chiaromonte si accosta a quello di una giovane imprevedibile e spigliata, la pittrice svizzera Lélo Fiaux, una delle fiamme amorose della gioventù di Moravia. Un’altra è Silvia Piccolomini, cugina dello scrittore e saggista Guglielmo Alberti, con la quale Moravia ha una relazione di pochi mesi nel 1930 e che sarà poi variamente ricordata, con un forte alone letterario, negli anni a seguire: con Silvia, Moravia pensa immediatamente al matrimonio e immediatamente la possibilità si vanifica; a Lélo, con la quale ha una relazione non esente da conflitti e tradimenti, scriverà nel 1934: «l’amour comme toute autre chose de cette vie n’est rien moins que tragique», che potrebbe ergersi a epigrafe di buona parte dell’intera opera narrativa dello scrittore.
Ma la corrispondenza più cospicua intercorre con Umberto Morra di Lavriano e si svolge anche oltre i limiti cronologici imposti dal presente volume, arrivando fino agli anni settanta. Conosciuto nel 1926 a Perugia, quando Moravia si è da circa un anno allontanato dal sanatorio Codivilla di Cortina d’Ampezzo, Morra avrà parte importante nell’estendersi delle amicizie moraviane e sarà testimone nelle nozze con Elsa Morante. Come Moravia, Morra è vorace lettore: entrambi sono stati profondamente percorsi dal sentimento della noia durante gli anni visitati dalla stessa malattia. Morra, figlio di un generale poi ambasciatore a San Pietroburgo, ha viaggiato e ha sensibilità politica e umanitaria: ha frequentato Gobetti e ne ha seguito il magistero; conoscerà nel 1925 Bernard Berenson, del quale tramanderà per iscritto una serie di colloqui. E Berenson, di Moravia, dirà subito come di «una promessa e una presenza», giudizio che si crede derivato dalla lettura ad alta voce che lo scrittore in persona gli fa del proprio romanzo (Le ambizioni sbagliate gli saranno lette da Morra). Durante il ventennio, Morra trasformerà la propria villa di Cortona in un vero e proprio rifugio per antifascisti: intanto ospita Moravia che in una della stanze di quella villa finisce la stesura degli Indifferenti, iniziati in un albergo di Bressanone.
Morra è un catalizzatore di incontri. Nei pressi di Cortona vive Pietro Pancrazi, critico di prim’ordine, fondamentale per Moravia esordiente; ma è la Torino gobettiana che vive quasi nella persona di Morra, dunque naturale tramite tra Moravia e i vicini di Gobetti: Debenedetti, Alessandro Passerin d’Entrèves, Alberti (che nel 1924 farà leggere a Debenedetti la sua più recente scoperta di lettore: Proust). Personalità oggi meno note tra quelle conosciute grazie a Morra sono Lucangelo (Lulli) Bracci Testasecca, figlio di un deputato poi senatore giolittiano; e sua moglie Margherita Papafava, allieva di Salvemini: vivono a Montepulciano, e saranno, come Morra, riferimento antifascista. Moravia ne frequenta anche la casa romana, aprendosi contatti con i salotti di Cecchi, Margherita Sarfatti, Mimì Pecci Blunt. E, per espansione, ecco Pannunzio, Malaparte, Borgese, Longanesi…
Questo mondo intellettuale è la rete dell’epistolario, dove trovano spazio meditazioni sulla letteratura e sull’esistenza, tra scoperte di nuovi autori e progetti di riviste. Soprattutto si aprono i cassetti relativi ai libri, con notizie attinenti all’elaborazione e alla ricezione; o riguardanti le collaborazioni e i viaggi, a partire dal soggiorno americano sostenuto dall’interessamento di Prezzolini. È tutto ciò che, nel corso del tempo, sarà il mondo di Moravia, compresa la sempre serpeggiante nausea per la letteratura e la voglia di vivere; e compreso qualche tratto umoristico. Dopo una conferenza newyorkese scrive a Pannunzio: «ho scoperto che sono un discreto oratore con un tono di voce forte che riesce a far passare anche le più volgari fregnacce».
Tra le questioni che cambiano almeno un po’ la prospettiva sull’opera, di rilievo la retrodatazione della lettura di Svevo («Sto leggendo Svevo e mi sembra molto bello – non m’aspettavo veramente tanto») tra fine ’27 e inizio ’28, dunque prima della pubblicazione degli Indifferenti e non dopo, come Moravia credeva di poter ricordare: magari, se si tratta di Zeno, qualche «atto mancato» andrà opportunamente riletto; o l’idea (in una lettera del ’34, finendo Le ambizioni: «dopo di questo mai più romanzi»: che pronostico!) di voler scrivere tragedie. Già tra teatro e romanzo, in oscillazione di titoli, si era mosso gli Indifferenti, nel cui settimo capitolo si legge: Carla «tiene le ginocchia accavalciate, fuma… effetto di gambe». Quelle stesse gambe, all’inizio, agli occhi di Leo erano apparse «gambe dai polpacci storti». Ma ora? Un azzardo che quell’«effetto di gambe», proprio come espressione, sia stato ispirato da uno spettacolo teatrale, mentre sembra già cinema? In una lettera di fine ’26 Moravia scrive: «ho visto le gambe di Paola Borboni». Erano della Borboni le gambe di Carla? Forse. Non stupirebbe, come non stupisce che dalle gambe di Dora Markus viste da Montale solo in fotografia sia nato un altro mito del Novecento.

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