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Alberto Martini, Poe nel cervello

Alberto Martini, Poe nel cervelloLo scarabeo d’oro di Edgar Allan Poe illustrato da Alberto Martini

Classici illustrati, un capolavoro Le sciarade fantastiche di Alberto Martini sui racconti di Poe in un libro di Alessandro Botta, edito da Quodlibet: pregevole il lavoro sulla fonti visive, da «Emporium» alle foto «medianiche»

Pubblicato più di 7 anni faEdizione del 19 febbraio 2017

Molti si ricorderanno d’una serie di libri che sfilava, un tempo, nei cataloghi di alcune librerie d’arte, elegante in una mise di seta nera; pochi certo avranno dimenticato i caratteri nei quali questi volumi erano impressi, quei bodoni lindi e severi come una fantasia neoclassica, e quelle iniziali che, se dette in francese, acquistavano una nota di poesia in più FMR: éphémère. Ed effimera fu, ahinoi, la collana «I Segni dell’uomo», che sarebbe dovuta durare sino a oggi e che invece si dissolse un giorno, come una collana di perle il cui filo si spezzi disperdendone intorno i grani preziosi. Di questi uno si intitolava Alberto Martini illustratore di E. A. Poe. Quei lettori che non sono riusciti a procurarsi il libro di Ricci e quelli che hanno voglia di scavare ancor più l’argomento possono leggere l’accurato studio di Alessandro Botta Illustrazioni incredibili Alberto Martini e i racconti di Edgar Allan Poe, pubblicato recentemente dall’editore Quodlibet (pp. 308 con illustrazioni b/n, euro 24,00).
Per guida i documenti, poi l’occhio
Formato di due parti limpidamente distinte, l’una dedicata alla diffusione delle opere di Martini e l’altra alla loro composizione, il volume è diviso al centro da un rigoglioso apparato figurativo che varrebbe già una medaglia all’editore, anche senza le eccellenti illustrazioni che accompagnano quasi ogni pagina. Le tavole dell’apparato raccolgono le opere di Martini mentre le figure disseminate lungo il testo ne mostrano le fonti visive. Botta ha risposto a cura con cura, mostrando, nel condurre il suo lavoro, una scrupolosità e una pazienza non minori di quelle messe dal suo editore a impaginarlo. Si è lasciato guidare dai documenti e aiutare dall’occhio, non viceversa. Ci dà le fonti, innanzitutto, come verosimilmente le aveva consultate Martini e cioè, a titolo d’esempio, i quadri attraverso le riproduzioni su riviste d’arte quali «Emporium», «Dekorative Kunst» o «La Plume», e i passi di Poe nella traduzione baudelairiana. Egli ricostruisce meticolosamente le occasioni d’incontro di Martini con le sue sorgenti d’ispirazione che sono svariate e che provengono da ogni parte: dalle illustrazioni anatomiche, dalle fotografie di esperienze medianiche, dalle rassegne di esposizioni internazionali d’arte ma anche dalle immagini più periture, quelle stampate su cartelloni o vignette pubblicitarie che domani si accartocceranno in un cestino o si sbiadiranno all’usura della pioggia. La pubblicità della pasta dentifricia Kosmeodont fornisce, così, all’artista il modello per il sorriso della sua Bérénice, la cui impostazione ubbidisce poi al dettato della Lilie di Khnopff mentre l’uomo-spumante d’una scenetta satirica trasmigra dalla rivista «Jugend» all’illustrazione per il racconto Lo strano sistema del dr. Catrame e del prof. Piuma.
Martini, come Molière, prende il suo ben dove lo trova. E Botta, titolando la seconda parte del suo libro «Il laboratorio dell’artista», non fa nulla in men di quel che dice: pare d’essere lì fra i fogli ordinati in un canto e le pagine vergate di minute annotazioni. Allo studioso d’arte, una volta letto questo lavoro, resta poco da chiedere ma al lettore d’interessi più generali rimarrà forse inesaudita una domanda: perché Martini s’interessò per più di trent’anni all’opera di Poe? L’unica risposta che trovo tra le pagine è che «la letteratura dello scrittore americano si adatti particolarmente bene ad essere trasformata in racconto per immagini». Facilità un po’ difficile a credersi. Se, infatti, l’ingegnoso supplizio di Hop-Frog e il pittoresco macchinario del Pozzo e il pendolo si prestano, così come alcune fra le scene dei cosiddetti racconti del grottesco, assai docilmente a una traslitterazione in termini visivi, come rappresentare quella coincidenza d’equilibrio architettonico e psichico che è il cuore della Caduta della casa degli Usher? E le storie narrate in William Wilson, in Morella, nel Demone della perversità o in Berenice non restano gracili e mence, una volta che si è tolta loro l’impalcatura psicologica che le sorregge? Motivi visivi di più semplice realizzazione li offrivano, restando nell’ambito del terrifico, testi allora assai noti come Il Castello di Otranto di Walpole, il Melmoth di Maturin o il Vathek dell’eccentrico lord Beckford, il cui finale nelle viscere d’una caverna avrebbe potuto far la gioia di un pittore come John Martin. O ancora: Petrus Borel e quel maestro del feuilleton visionario che fu Gaston Leroux. Se insomma la sensibilità di Poe non avesse esercitato, da Baudelaire in avanti, una così penetrante malia, io dubito che illustratori come Martini si sarebbero cimentati in un agone in partenza tutt’altro che agevole. Lo stesso Botta mostra, in fondo, di non credere troppo alla sua spiegazione, se sovente elogia l’inventiva di Martini nel saper individuare gli «unici spunti che possono sollecitare motivi figurativi in qualche misura tangibili» di molti racconti.
Maschere alla Galleria Laocoonte
Quale fosse il gusto dell’artista può vedersi a Roma in questi giorni alla Galleria Laocoonte dove, per una mostra che ha per soggetto le maschere, è esposta, accanto a opere di Gino Severini, di Angelo Urbani del Fabbretto, di Umberto Brunelleschi una serie di disegni in china di Martini: Il Poema delle Ombre. All’esposizione si vedono varie pregevoli opere, allacciate dai temi del Carnevale, d’Arlecchino e della Serenissima; qualche titolo: Il carnevale di Venezia di Ugo Rossi, Il matrimonio di Casanova di Oscar Ghiglia, Arlecchino e Colombina di Gino Severini. Il Poema delle Ombre è una declinazione assai personale di questi motivi. Consta di 28 fogli (risalenti al primo decennio del Novecento) della dimensione di un taccuino grande, in ciascuno è una maschera come volteggiante su un viso senza sostanza, un corpo senza corpo. Questi densi e nubilosi coaguli di china a rivestire esseri dalle viscere d’aria, che sono maschere e ombre assieme, appartengono a un sensibilità precisa, notturna e romantica, come la Venezia che sembrano evocare che è quella del Visionario di Schiller, dei Misteri di Udolpho di Ann Radcliffe e, in fondo, dell’Appuntamento di Poe, loro tarda discendenza.
Molti racconti di Poe sono, d’altra parte, il prodotto di elementi derivativi: calchi e frammenti di copie gettati nel crogiuolo di una sensibilità tardo-romantica. Di qui deriva il loro bizzarro sincretismo. Ma quei volti di donne, come disegnate da un linfatico e atrabiliare Canova del Nord, quegli arredi, stravaganti mescolanze di neoclassico, di egizio e di druidico che, per la singolarità dei loro accostamenti, tanto piacquero ai Surrealisti non dovevano fatalmente attrarre un ingegno del tipo di Martini?
Anche nel laboratorio dell’artista, così ben descritto da Botta, come nella scrivania dello scrittore di Boston legni della più diversa provenienza contribuivano alla creazione di un unico manufatto: ora erano figure di Rembrandt, ora illustrazioni pubblicitarie, ora vignette ridanciane. Dell’autore di queste sciarade fantastiche Vittorio Pica scrisse: «egli non ha punto bisogno di attingere motivi direttamente dalla vita reale, così come per disegnare sulla carta i nudi di una donna nei quali eccelle non ha bisogno di avere nessun modello sotto gli occhi. Egli è uno di quegli individui le cui vere avventure avvengono e svolgonsi esclusivamente nella massa grigia del cervello». Huysmans non usò nel suo elogio di Poe parole tanto diverse. Come si è detto, però, Botta si ferma prima, lasciando al lettore il compito di trarre le proprie conclusioni da quello che rimane un pregevole e importante contributo di iconografia.

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