Alberto Giacometti, i primi passi del predestinato
Passati sotto uno spettacolare arco naturale creato da due speroni di roccia, in un attimo si entra nel villaggio di Stampa, in Val Bregaglia. Alla fine del paese, sulla destra, tutta in legno con un vasto ballatoio – tronchi di un marrone scuro impilati e grandi piode di beola a tetto – ci si trova di fronte a una costruzione rustica, di antica tradizione. È posta proprio sul ciglio della strada e non si può fare a meno di notarla. In quella casa comincia e finisce la vita di uno dei protagonisti dell’arte del Novecento, Alberto Giacometti. Montagne incombenti, dalle creste frastagliate, appuntite, innervate in ogni punto da profondi crepacci, segneranno – e non è retorica – la sua arte. Ancora nel ’57 scriverà a sua madre di preferire per il suo rientro in valle da Parigi l’autunno, «nel periodo delle ombre lunghe».
Partito per la capitale francese nel gennaio del ’22, destinazione i corsi all’Académie de la Grande Chaumière con Antoine Bourdelle, lì troverà il suo humus. Ma a Stampa, nella sua valle, tornerà ogni anno, salvo durante la guerra, calamitato dagli affetti famigliari, dal paesaggio che visceralmente teneva dentro di sé. Il legame di Alberto con la cerchia famigliare rimarrà saldissimo, indissolubile fino alla fine.
Racconta in un’intervista l’amico Eberhard Kornfeld – gallerista, collezionista, studioso veramente unico, cui i curatori della mostra Alberto Giacometti. Ritratto dell’artista da giovane, fino al 19 novembre al Bündner Kunstmuseum Chur (Coira), dedicano un sentito omaggio a pochi mesi dalla scomparsa – di aver conosciuto Giacometti a Berna nel ’48, in occasione di una mostra di scultori svizzeri parigini: «mi lasciò senza parole vedere come la madre Annetta indicasse senza discussioni il posto esatto dove il figlio doveva collocare le sue opere». Come è poi lo stesso Alberto ad ammettere, la madre Annetta era «l’unica autorità che avesse mai riconosciuto». Una delle opere totem della mostra è senz’altro il dipinto del padre di Alberto, Giovanni, del 1923 (mal riprodotto in catalogo), in cui ritrae il figlio modellare il volto della madre. Alberto osserva a pochi centimetri di distanza il volto di Annetta; immediatamente colpisce l’intensità del suo sguardo. È un dipinto che dice molto sui legami fortissimi, sui pensieri telepatici tra madre e figlio, ma molto anche su quello che diventerà l’artista maturo, quell’indagine continua di fronte all’oggetto condotta fino al limite della sua autodistruzione, quel voler «saper vedere», come scrive nel suo bel saggio Paul Müller.
«Ecco il tipetto, pesa 3,2 chili!», annuncia Giovanni agli amici Oscar Miller e Cuno Amiet alla nascita del primogenito Alberto. Inevitabilmente un predestinato. L’ambiente famigliare non poteva essere più favorevole per coltivare lo studio e l’arte. La madre Annetta, figlia di un maestro di paese, è donna colta e sensibile; Giovanni, il padre, uno dei maggiori pittori svizzeri a cavallo del secolo, amico di Amiet e di Ferdinand Hodler, padrini rispettivamente di Alberto e del fratello Bruno. Sopra il passo del Maloja si sente ancora la presenza di Giovanni Segantini, per tanti aspetti il maestro sia di Giovanni Giacometti che di Cuno Amiet. Dai materiali in mostra si può seguire fin dal suo stato embrionale (Paesaggio del 1910, a soli 9 anni) la formazione di Alberto bambino e poi ragazzo alle soglie della maturità, sempre seguito con la massima dedizione dai genitori. Alberto nasce nel 1901, e fino alla sua partenza per Parigi nel 1922 vivrà del confronto continuo con il meglio dell’arte svizzera del tempo. In mostra uno schizzo di Amiet descrive a meraviglia la cura con cui Alberto viene seguito dal padre: li ritrae di spalle proprio nel suo studio; Giovanni tiene affettuosamente stretto a sé Alberto mentre entrambi osservano le opere del padrino.
Amiet e Giovanni, artisti d’avanguardia che hanno fatto tesoro delle loro esperienze parigine e monacensi, e che nel 1907 s’imbarcano insieme in un lungo viaggio per non perdersi la prima retrospettiva dedicata a Cézanne. Da questo ambiente così stimolante, dagli orizzonti aperti, Alberto trae continuo beneficio. Dopo gli anni liceali trascorsi nella ferrea disciplina del collegio di Schiers, nel ’21 parte per un lungo soggiorno in Italia. Sollecitato dal padre, si era già appassionato all’esercizio di copiare dai libri i capolavori dell’arte antica. Venezia, Firenze, Assisi, Roma, Napoli con Paestum e Pompei, Giacometti visita senza sosta e assorbe; incuriosisce il fatto che dai Musei Vaticani non sia attratto dalla scultura greco-romana, bensì da quella egizia, lasciata lì un po’ in disparte. Un segnale premonitore.
La mostra è animata principalmente dal confronto tra le opere di Giovanni e Alberto; ma non solo, se pensiamo alla serie di ritratti, decisivi nel suo percorso, che Alberto dedica alla figura paterna, sottomettendone la forma triangolare del viso ad ogni sorta di sperimentazione. «Mio padre era un uomo gentile, molto, molto gentile», scrive nel ’53. E come non associare queste parole alla luminosità celeste che fa da sfondo ai ritratti del padre dipinti tra il 1932 e il ’33 poco prima che morisse? Sarà lui a occuparsi di persona della prima retrospettiva sull’opera di Giovanni al Kunsthaus di Zurigo (1934). Solerte nel seguire lo sbocciare dell’artista, la mostra documenta momento dopo momento la crescita del giovane artista; dapprima, quando ragazzino dipinge accanto al padre gli stessi motivi, poi con l’andar del tempo quando se ne distacca, si allontana gradualmente dalla tecnica postimpressionista, segnata da un cromatismo brillante, da una serenità di fondo che è l’anima della pittura di Giovanni (si pensi allo splendido Pendio al sole con capre e pecore del Museo di Coira).
Alberto è di un’altra pasta e soprattutto di un’altra generazione. S’impone la struttura, dal ’18 prendono vieppiù solidità le montagne, si addensano le zone d’ombra. Come se avesse preso in mano una lente, la sua attenzione si focalizza sempre più su un punto (la punta di un naso è il deserto del Sahara) e i crepacci delle cime diventano un reticolo di segni aspri. Il Piz Corvatsch del 1921-’23 sembrerebbe per la sua monumentalità un omaggio a Ferdinand Hodler, mentre l’Autoritratto del ’23, frontale, roccioso, compatto, segnala la svolta. Nel ’22 è la decisione di concentrarsi sulla scultura. Dopo un fallito tentativo a Ginevra, si trasferisce per la formazione a Parigi. In una lettera del ’23 riferisce al padre su uno scambio di opinioni avuto con Bourdelle. Il maestro non capisce perché egli voglia fare emergere «la bellezza del modello» che considera secondaria. L’allievo è invece dell’avviso contrario. Immediata la risposta del padre a sostegno della tesi del figlio: «È artista colui che sa vedere. E studiare l’arte vuol dire imparare a vedere. Ora Ingres dice che per imparare a vedere la natura è necessario studiare gli antichi. Ha ragione».
Un autoritratto in gesso del ’25, di una tale sintesi che fa pensare alla scultura romanica, conclude l’esposizione e segna un ulteriore salto; svolta che ne preannuncerà tante altre in una ricerca inquieta, mai soddisfatta.
La mostra non è ammaliante, ma intrigante sì. Nelle mani di due ferrati studiosi ricostruisce con dovizia e varietà di documenti – la prima, credo, in modo così approfondito – la genesi dell’artista bregagliotto; poi di certo non lascia indifferenti sentire in ogni lettera, in ogni fotografia, nelle opere, quei legami di profondo affetto grazie ai quali la famiglia Giacometti aveva creato il proprio cerchio magico.
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