Alberto Fasulo i miei personaggi normali, combattenti della vita
Intervista Il suo nuovo film, «Genitori», presentato al Festival di Locarno, sarà nelle nostre sale in ottobre. «Filmare per me è costruire una relazione» dice il regista che è già al lavoro sul prossimo progetto, la storia di Domenica Scandella detto Menocchio, un mugnaio di Montereale processato dall'inquisizione
Intervista Il suo nuovo film, «Genitori», presentato al Festival di Locarno, sarà nelle nostre sale in ottobre. «Filmare per me è costruire una relazione» dice il regista che è già al lavoro sul prossimo progetto, la storia di Domenica Scandella detto Menocchio, un mugnaio di Montereale processato dall'inquisizione
Presentato fuori concorso al festival di Locarno, e in attesa di uscire in sala il prossimo ottobre (con il Luce), Genitori è il nuovo film di Alberto Fasulo, autore di Tir – con cui ha vinto il Festival Internazionale del Film di Roma nel 2013 – tra i migliori registi italiani delle nuove generazione cresciute nel documentario, e capaci di portare questa esperienza di ascolto e di osservazione della realtà in una dimensione narrativa.
Genitori (prodotto da Raicinema) illumina di semplice consapevolezza un tema oscuro come la disabilità «fuori campo» ovvero quella vissuta di riverbero dalle famiglie di ragazzi disabili, raccontando con sorprendente complicità il quotidiano di una dozzina di madri, e un paio di padri, durante le riunioni dell’Associazione Vivere Insieme di San Vito al Tagliamento cittadina del regista. Lo abbiamo incontrato nei giorni del Festival, dove il film è stato accolto dal pubblico con calore e molti applausi.
Hai lavorato per oltre cinque anni a «Genitori» e tre per «Tir» il tuo film precedente. Quanto hai bisogno di una lunga dimensione temporale per concepire un film?
Il tempo per me è una conditio sine qua non perché il mio approccio al cinema è sempre stato istintivo. Mi serve per capire da dove arrivano certi input, come metabolizzarli per poi comprenderne la radice profonda, e la ricerca è molto importante perché è lì che metto a fuoco le modalità, l’estetica del film, cosa e come raccontare. Sia per Tir che per Genitori questa ricerca è avvenuta sul campo, nutrendosi della relazione che instauro con i miei personaggi. Per un film come Genitori, senza una vera fiducia reciproca, non mi sarei mai così innamorato dei miei protagonisti. E sono consapevole che devo arrivare a quel tipo di relazione ma non so veramente come farlo, se non «vivere» insieme ai miei personaggi.
Come hai scoperto l’esistenza dell’Associazione Vivere Insieme?
Sono stati loro a contattarmi. È un gruppo molto attivo nel friulano, fanno molte attività tra le quali un cineforum. Quando sono entrato per la prima volta nelle stanze dell’associazione, ho provato un’emozione fortissima, è stato molto intenso e non sono riuscito a trattenere le lacrime anche perché ogni storia era un film. Ho iniziato un percorso di conoscenza cercando di mettermi a loro fianco, di sentire la disabilità come se fosse mia.
Sembra che l’eroismo «dal basso», quotidiano, quello invisibile e senza proclami, sia un tema molto presente nel tuo cinema.
Sì e probabilmente è una cosa inconscia e istintiva. Credo che le piccole storie, le persone normali siano i veri combattenti della vita. Vivere nella normalità è complesso, vivere negli eccessi invece è troppo facile.
Come lavori sulla dimensione spaziale? Se quella temporale si nutre di una dilatazione necessaria all’ideazione del film, i luoghi del tuo cinema sono spesso circoscritti in pochi metri quadrati.
Anche lo spazio riguarda la relazione con i personaggi. Un mio spostamento implica uno spostamento del personaggio, e questa è la parte più difficile anche perché la mia priorità è fare in modo che i miei protagonisti si sentano a loro agio. L’ho imparato girando Rumore bianco (film sulle esistenze lungo il Tagliamento, ndr). IA un certo punto entro nella cucina di due anziane montanare: lì mi sono reso conto che io e loro eravamo quasi due calamite, mentre ascoltavo l’energia dell’altro trovavo la mia posizione e loro riuscivano a vivermi «di fronte», senza nascondersi. Mi piace molto questa relazione perché ingaggia un corpo a corpo, un contatto attraverso la macchina da presa ed è per questo che mi è quasi impossibile non essere l’ operatore dei miei film.
Come si sono svolte le riprese?
Giravo circa un’ora e mezza, ogni due settimane. Non potevo entrare nel loro mondo all’improvviso, dovevo lavorare per gradi. Le riprese sono durate circa un anno, avrei potuto farlo con due o tre telecamere ma non volevo mettere a rischio la loro fiducia portando dentro altre persone. Grazie a questo film, credo di aver cambiato il mio modo di pensare il cinema. Sentivo una responsabilità fortissima visto che dovevo rispondere a una urgenza dei protagonisti, ma a volte avrei voluto intervenire nei loro discorsi.
Il legame con il territorio friulano sembra un’altra costante fondamentale del tuo cinema, una sorta di bacino infinito, una suggestione continua…
È vero, non so se potrei «ricevere» una storia lontana da me e poi raccontarla. Una parte delle mie radici lavora nel mio inconscio, in qualsiasi luogo io mi trovi, anche quando anni fa vivevo a Roma. E la cosa è buffa perché ho sempre voluto andarmene dal Friuli ma il Friuli è il mio mondo, ed è anche grazie a questo senso di appartenenza che ho scoperto una figura come Menocchio che sarà il protagonista del mio prossimo lavoro, il mio primo film di «finzione».
Puoi dirci qualcosa in più su questo tuo prossimo film?
Racconterà la storia di Domenica Scandella detto appunto Menocchio, un mugnaio di Montereale processato dall’inquisizione e mandato al rogo, un eretico che, quasi cinquecento anni fa già parlava di separazione fra Stato e Chiesa, puntava il dito contro l’opulenza ecclesiastica, rivendicava l’ indipendenza intellettuale. Insieme a questo sto realizzando un altro film, forse più sperimentale, sulla Grande Guerra. Voglio utilizzare i materiali d’archivio girati, verso la fine del 1915 dagli americani sbarcati in Italia. Sarà un film sulla propaganda, una riflessione sul mestiere dell’operatore, sulla veridicità delle immagini e sulla responsabilità della ri-creazione della realtà.
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