Alberto Crespi, il cinema in  dodici storie, forse
Alias

Alberto Crespi, il cinema in dodici storie, forse

Pagine «Short Cuts», da Laterza
Pubblicato circa 2 anni faEdizione del 27 agosto 2022

Dobbiamo credere al sottotitolo «Il cinema in 12 storie» o alla quarta di copertina: «Una storia del cinema come non l’ha mai raccontata nessuno»? Il paradosso dello straordinario libro dell’ex critico cinematografico de «l’Unità», attualmente direttore di «Bianco e Nero» e conduttore di Hollywood Party, è che sono vere tutte e due. Sono dodici i film che tra il 1959 e il 1960 hanno sconvolto il modo tradizionale di fare cinema – «Un dollaro d’onore», «La dolce vita», «L’appartamento», «La grande guerra», «Nazarín», «Il mondo di Apu», «I magnifici sette», «Psyco», «La bella addormentata nel bosco», «Historias de la revolución», «Sabato sera, domenica mattina», «Fino all’ultimo respiro» – classici fuori discussione, manifesti della «politique des auteurs», smaglianti commedie americane, capolavori del western formano la splendida dozzina che sostiene la trama di base del volume. Certo, cominciare con «Un dollaro d’onore», uscito in prima mondiale al Roxy di New York il 18 marzo 1959, è già un bel colpo di fortuna perché non solo coglie insieme l’identità profonda di un paese e di una cultura, il geniale classicismo di Howard Hawks celebrato da Jacques Rivette sui «Cahiers du Cinéma», ma anche uno dei più popolari titoli dell’esperienza spettatoriale di svariate generazioni di cinefili. Ma se dopo l’epica coinvolgente del West si passasse senz’altro all’affresco felliniano con i paparazzi che spuntano da tutte le parti, anche dai rotocalchi dove è avvenuta la loro prima apparizione, il libro sarebbe soltanto una avvincente ricostruzione della svolta epocale del ’59-60.

Ma l’idea forte del volume è un’altra. Senza abbandonare il riferimento ai dodici canonici percorsi, l’autore volta subito pagina per far entrare nuovi personaggi. Se un classico è anche un’opera che definisce i propri antenati non ci vuole molto, passando attraverso William Kennedy Laurie Dickson, il pioniere dell’inizio del secolo attivissimo con Edison, ad arrivare a «La nascita di una nazione» di David Wark Griffith. Un capolavoro razzista oggi inaccettabile? Si fa appena in tempo a cercare di rispondere alla domanda che la parola passa a Lois Weber e Ida Lupino, le due prime directress del cinema. Se Weber è una femminista ante litteram, che concepisce il cinema come uno strumento di elevazione morale e di lotta politica, Lupino non solo è una diva di spicco degli anni Quaranta, ma riesce a diventare produttrice e regista tra l’altro di «La belva dell’autostrada» e «La grande nebbia», due film di grande interesse. Seguendo le più imprevedibili coordinate storico-geografiche, l’acrobatica scansione degli argomenti non esita a passare da Igor Stravinskij a Arnold Schönberg, da Robert Flaherty a Merian C. Cooper e Ernest B. Schoedsack, da Irving Thalberg a Vladimir Majakovskij, da Jerry Lewis a Buster Keaton, senza dimenticare Franco e Ciccio, da Blake Edwards a Peter Sellers, da Dziga Vertov ai Rolling Stones, da Billy Wilder a Isaac Singer, da Luciano Vincenzoni a Guy de Maupassant, da Jean Renoir a Roberto Rossellini, da Luis Buñuel a Larisa Šepitko, la nuova Greta Garbo, da Ivan Mozzuchin a Lev Kulešov, da Dmitrij Sostakovic a Grigori Kozintsev, da Elia Kazan a Edward Dmytryk, da Andrej Michalkov-Konchalovskij a Andrej Tarkovskij, da Fritz Lang a George Lucas, da Ingmar Bergman a Peter Jackson, da Akira Kurosawa a Francis Ford Coppola, da Sergio Leone a Sam Peckinpah, da Don Siegel a Clint Eastwood, da Janet Leigh sotto la doccia a Jodie Foster che scruta i pianeti, da Marlene Dietrich a Mae West, da Bertolt Brecht a Charles Laughton, da Walt Disney a Sergej Ejzenštein, da Stanley Kubrick a James Bond, da Arthur Penn a John Cassavetes, Werner Herzog a Klaus Kinski, da John Woo a Tsui Hark, da Souleymane Cissé a Djibril Diop Mambéty, da Nagisa Oshima a Abbas Kiarostami, da Andy Warhol a Marilyn Monroe, da Theodoros Anghelopus a Miklós Jancsó.

Ma non posso continuare a sparare nomi con la disinvoltura con cui l’autore passa da un racconto all’altro, secondo l’ambizione dichiarata di voler essere soprattutto un cantastorie. Un incredibile storyteller che ripercorre a rotta di collo le vicende appassionate e meno note di una storia del cinema che evita ogni linearità cronologica per immergersi in una narrazione infinita che, saltando da un titolo all’altro, racconta il passato della settima arte e ne anticipa il futuro.

Se provate un senso di vertigine non preoccupatevi, è proprio la vertigine il paradigma epistemologico della singolare impresa (pp. 416, euro 24,00).

ABBONAMENTI

Passa dalla parte del torto.

Sostieni l’informazione libera e senza padroni.
Leggi senza limiti il manifesto su sito e app in anteprima dalla mezzanotte. E tutti i servizi della membership sono inclusi.



I consigli di mema

Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento