Alberto Cavaglion: «Questi luoghi non sono come gli altri»
16 ottobre 1943 Una intervista al saggista e docente di Storia dell'ebraismo a Firenze. «Didatticamente è impossibile un percorso con gli studenti nelle vie del ghetto senza metterli sulle tracce di quanto vi è accaduto. È necessario saper restare sulla soglia»
16 ottobre 1943 Una intervista al saggista e docente di Storia dell'ebraismo a Firenze. «Didatticamente è impossibile un percorso con gli studenti nelle vie del ghetto senza metterli sulle tracce di quanto vi è accaduto. È necessario saper restare sulla soglia»
Quale che sia la realtà che stiamo vivendo lunedì sarà, a prescindere dalla nostra volontà, l’ottantesimo anniversario della razzia del 16 ottobre 1943, anche allora era un sabato. E’ stata la più grande razzia di ebrei compiuta sul suolo italiano. Ricordarlo oggi ha senso perché la Shoah continua a gettare le sue ombre sul presente, nel linguaggio, nella comunicazione politica e in quella sui social oltre che al bar e nelle aule. L’Italia non è mai stata fuori dal cono d’ombra che questa (che Shoah in ebraico è femminile e significa «catastrofe – distruzione») ha gettato sulla coscienza civile e nella storia della memoria.
Nell’impossibilità di darne i nomi questi sono i numeri: dopo due giorni di prigionia al Collegio militare sul Lungotevere 1022 persone ebree sono salite sul treno partito la mattina di lunedì 18 ottobre del ’43 dalla stazione Tiburtina, 2 erano morte durante l’arresto. Destinazione Auschwitz. Alla fine della guerra – tra l’estate e l’autunno del 1945 – tornarono 15 uomini e una sola donna. Nessuno dei bambini: erano 274 ed avevano meno di 15 anni. Questi arresti furono sostanzialmente compiuti dalle truppe naziste. Ma dopo, nei nove mesi di occupazione della città, furono catturati e deportati altri 583 uomini, 147 donne, 38 minori di 15 anni. Di loro tornarono in 118. Questi però furono arrestati da fascisti italiani, da nazisti e da delatori per ideologia o profitto (erano 5mila lire per un uomo, 3mila per una donna e millecinquecento per un bambino).
Eppure gli ottanta anni trascorsi, di cui ventidue di celebrazioni del giorno della memoria, hanno lasciato un segno ambiguo anche sulla memoria del 16 ottobre: «A me sembra che si sia ad punto di svolta – spiega Alberto Cavaglion, intellettuale, saggista, professore di storia dell’ebraismo all’Università di Firenze – Credo sia il momento di fermarsi e riflettere sui risultati ottenuti come sui limiti e sugli errori che sono stati commessi con animo sincero e schietto. Credo che quelli più marchiani siano nella retorica celebrativa dell’esercizio della memoria soprattutto nella scuola. Per esempio – prosegue determinato – un calendario civile slegato dai programmi scolastici che impone salti brutali e decontestualizzazioni non funziona e nel proliferare delle date tutto si infittisce e tutto diventa uguale». La riflessione sembra rivolta principalmente al 27 gennaio, giorno della memoria e data della liberazione di Auschwitz, data in cui in Italia non è accaduto nulla e che consente una celebrazione che non coinvolge le responsabilità e le vicende italiane. A quel rito che non ha saputo farsi rito civile è necessario trovare strade alternative anche perché, il 16 ottobre, è invece una ricorrenza tutta italiana e romana.
«Nel momento in cui il testimone viene a mancare ci sono due strade che si aprono: una la conosciamo bene ed è quella della storiografia che è stata ben praticata, lo studio delle fonti e dei documenti. Ma c’è un’altro percorso possibile da riscoprire e che è sempre stata una risorsa della storia: la letteratura. Come è sempre accaduto nel passato, in tutti i momenti di transizione, la letteratura approfitta di questo scarto dalla testimonianza dei protagonisti per far transitare fino a noi la voce dell’autore o del poeta – prosegue Cavaglion che sostiene di non aver ancora deciso se gli piace più la storia o la letteratura e nel mentre coltiva lo studio di entrambe – E’ fatale che la letteratura si riappropri di quello che non può più dire il testimone, sapendo, anche se la cosa ci può disturbare, che la letteratura può anche essere in disaccordo con la storia, può entrare in competizione, ma è necessario distinguere. La scuola deve saper insegnare che la letteratura è diversa dalla cronaca o dalla memorialistica, l’insegnante ha il dovere di guidare lo studente alla ricerca di un testo alto: questo vale per la peste del 1600 e Manzoni o, per la prima guerra mondiale, i libri di Emilio Lussu. Ci vuole un autore alto che racconti quei fatti: occorre accettare che la letteratura abbia un proprio statuto che può non combaciare con i nostri principi e che sia necessario usare gli strumenti che la critica letteraria usa da sempre. Certo, lavoriamo su ipotesi e su tentativi nuovi ma è una strada che vale la pena di percorrere». Si tratta di combattere la stanchezza memoriale infiltratasi nel discorso pubblico: «I personaggi di Primo Levi hanno scritto tutti i loro libri di memoria e tutti hanno detto: “Questo sono io, non quello di Levi” perché anche per i protagonisti di Se questo è un uomo lo scrittore-testimone mescola il vero e il verosimile, il reale e la finzione letteraria. Questo tema ci coinvolge e ci turba profondamente perché la parola finzione applicata alla Shoah fa venire i brividi eppure esiste, perfino nei personaggi di Levi, la componente di fantasia che viene dalla Bibbia, da Dante, dai classici della letteratura. Anche Anna Frank nella versione del celebre Diario destinata alla pubblicazione (di recente pubblicazione per Einaudi ragazzi con il titolo Cara Kitty – romanzo epistolare, ndr) assumono veste di personaggi letterari quelli che nella prima versione diaristica erano persone reali: anche lei mescola una componente di verità ed una di verosimiglianza».
Nell’Italia del dopoguerra sono state due le vie maestre che hanno sviluppato il rapporto tra letteratura e Shoah. La prima è quella dell’illuminismo raziocinante di Primo Levi mentre nel caso di Roma e del 16 ottobre si rincorrono una pluralità di voci di cui il testo principe è 16 ottobre di Giacomo De Benedetti che esce in una Roma appena liberata ma con l’Italia ancora in guerra. «Ma – sottolinea Cavaglion – vengono editi anche Giorgio Bassani e Carlo Levi. Sono le prime voci dell’Italia libera che riflettono e ragionano su quello che sono state le leggi razziali e l’occupazione. De Benedetti taglia il traguardo per primo e scrive un testo che in pochi anni diventerà un classico, anzi è proprio il prologo di una serie di narrazioni che ritornano su quel testo e in qualche modo lo riscrivono. Nel 1946 viene pubblicato Scorciatoie e raccontini di Umberto Saba, nel 1974 La storia di Elsa Morante a cui segue Rosetta Loy (1997) con La parola ebreo in cui racconta la propria vicenda personale ma che riparte ancora una volta da De Benedetti, Saba e Morante. L’ultimo di questa linea genealogica immaginaria è Enzo Forcella ne La resistenza in convento del 1999 che ha un capitolo che riprende il 16 ottobre e rimette di nuovo tutto in fila: c’è proprio un filo rosso che unisce tutte queste narrazioni. Non ci sono altri eventi della Shoah italiana che abbiano prodotto un concatenarsi così stretto di narrazioni».
Alberto Cavaglion nel ragionare sulla letteratura – si veda il suo Decontaminare le memorie. Luoghi, libri, sogni” (Add Editore 2021) – segue un itinerario intellettuale che dai libri si volge anche ai luoghi: «Quello che esprimo è il disagio su luoghi che non possono essere considerati come gli altri, li si percorre, li si abita, ma è indispensabile tenere conto della loro differenza, della sofferenza che emanano e che li rende unici: non ci si può comportare come se fosse possibile fare didatticamente un percorso con gli studenti senza avvisarli, senza metterli sulle traccie di quanto vi è accaduto: non si attraversa le vie del vecchio ghetto con lo stesso spirito con cui visita un altro luogo perché questi luoghi non sono come gli altri, bisogna fare una pausa sul bordo, sul ciglio, è necessario saper restare sulla soglia. Ma questo tentativo, forse, fa ancora parte dei sogni».
Nella raffinatezza degli itinerari intellettuali e didattici che Cavaglion propone sembra che i nostri giorni gli stiano dando non poche ragioni infatti «la certezza è che molti dei percorsi fatti fino ad ora avessero dei vizi di forma».
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