Storia di un grande amore non contraccambiato, l’avventura italiana di Orson Welles, dall’autunno del ’47 alla primavera del ’53, è uno dei periodi della vita del grande regista più controverso e meno indagato. Lo splendido libro di Alberto Anile, Orson Welles in Italia, appena pubblicato da La nave di Teseo (pp. 356, euro 27,00) – nuova edizione ampliata del volume edito nel 2006 dal Castoro – è una sorta di boîte à surprise, dove, attraverso una documentazione capillare e impressionante, i sei anni del soggiorno italiano sono ricostruiti si direbbe giorno per giorno, nelle impennate e nelle contraddizioni, continuamente arricchiti di eventi, progetti, sceneggiature poco note o addirittura inedite.

Nel clima sempre più drammatico della «caccia alle streghe», promosso dal senatore repubblicano Joseph McCarthy, il regista ha pensato spesso di espatriare in Europa, magari dando seguito ai frequenti contatti con Alexander Korda, il titolare della London Film. Rooseveltiano doc, sostenitore del New Deal, amico personale del Presidente, è un intellettuale di sinistra estraneo al comunismo. Il disprezzo per il nuovo orizzonte politico inaugurato da Harry Truman, i rapporti difficili con gli Studios e quelli complicati con il fisco sono probabilmente tra le ragioni della fuga in Italia, dove la Scalera Film l’ha contattato per interpretare Cagliostro, un film di cappa e spada diretto da Gregory Ratoff, il regista russo emigrato negli Stati Uniti sin dagli anni Venti.

Quando il 12 novembre 1947 all’Hotel Excelsior di via Veneto si tiene la conferenza stampa per il lancio del film, Welles è per il pubblico italiano l’autore del mitico Citizen Kane (1941), non ancora arrivato nelle nostre sale, L’orgoglio degli Amberson (1942), Lo straniero (1946), distribuiti poco e male. L’orgoglio degli Amberson, anche se affidato ai Vice del Corriere della Sera e del Messaggero, aveva avuto una discreta accoglienza con una clamorosa eccezione. Quella di Umberto Barbaro, prestigioso teorico e pessimo critico, che su l’Unità del 23 agosto 1946 non esita a accostarlo ai film «calligrafici» di Soldati e Castellani, scrivendo fra l’altro: «Scenografia, costume, fotografia sono ricercatissime è vero, ma appaiono di una belluria pacchiana priva di qualsiasi evidenza significativa». La signora di Shangai, che esce nelle sale nel settembre 1948, mette tutti d’accordo anche grazie al carisma divistico di Rita Hayworth.

Nella conferenza stampa dell’Excelsior il regista si congeda da Hollywood che «non impara più nulla e non insegna più nulla», mentre considera interessante il cinema italiano: «Sono qui per studiarlo da vicino. Il film che mi è piaciuto più di tutti è Sciuscià. Ma sono a Roma anche per osservare la vostra vita politica, ho infatti intenzione di avvicinare nei prossimi giorni le maggiori personalità del vostro mondo politico, De Gasperi, Togliatti, Saragat e Giannini». La leggendaria cena con Palmiro Togliatti – l’unico incontro che va in porto – avverrà l’8 dicembre da Romualdo, una piccola pizzeria vicino a Montecitorio, quando è già iniziata la lavorazione di Cagliostro, un personaggio che gli piace perché si sente un poco Cagliostro anche lui.
Il set del film – ispirato al romanzo di Alexandre Dumas père – nel corso dei cinque mesi passati negli studi della Scalera in via Appia 110 fa in tempo a diventare una pittoresca corte dei miracoli, dove il contrasto fra il regista russo e l’interprete americano, che ha il diritto di dirigere le scene in cui recita, si esaspera ogni giorno di più. Se l’attore si coltiva un gruppo di fedelissimi, tra i quali Michal Waszynski, un cineasta polacco che vanta dubbie origini aristocratiche, Ratoff, che si circonda di un numero infinito di compatrioti impegnati nelle più stravaganti incombenze, non esita a rifare a modo suo le sequenze girate da Welles, accorciando il più possibile in sede di montaggio la durata delle apparizioni del negromante siciliano.

L’entusiasmo di Orson per la città eterna è sincero. Ne ammira le bellezze artistiche, ma non trascura Tor Fiorenza, le Grotte del Piccione, la Taberna Ulpia, i ritrovi di via Veneto, fino a diventare un protagonista della vita notturna romana, che le riviste popolari dell’epoca – da Hollywood a Cine Illustrato, da Fotogrammi a Bis – si contendono in una serie infinita di articoli in bilico tra l’agiografia e il pettegolezzo. «Hollywood è ormai lontana, dimenticata», dichiara, «dimenticati i suoi faraoni senza grandezza, i suoi geni senz’anima. Roma mi adotta e io adotto Roma».

Il clamore suscitato dalla presenza del regista in Italia convince finalmente i distributori a doppiare Citizen Kane e a presentarlo il 12 maggio 1948 in serata di gala all’Excelsior di Milano. Ma l’assenza di Welles, partito improvvisamente per l’America, gli rovina la festa. Nelle sale italiane arriverà solo l’anno dopo con il titolo Quarto potere. Quello che oggi viene universamente considerato un capolavoro, dopo esser stato per anni in testa alle classifiche dei migliori film del mondo, all’epoca non suscita l’applauso né del pubblico né della critica. Nel generale «pollice verso» della critica – soprattutto di sinistra – il più accanito è questa volta Guido Aristarco, che storce il naso di fronte alle inquadrature «stravaganti e spregiudicate» e ai «non sempre giustificati movimenti di macchina» di un film che si propone soltanto di «sbalordire ad ogni costo».

L’inconciliabilità fra la strategia espressiva di Orson Welles e il neorealismo non può essere più assoluta.
«Otello, facciamo Otello». L’idea dell’Otello – che non viene al cineasta americano ma al patron della Scalera durante la lavorazione di Cagliostro – nasce da un equivoco. Appassionato di opera lirica, Michele Scalera quando dice Otello non pensa a Shakespeare ma a Verdi, a un’opera filmata come le tante che nel passato aveva prodotto con notevole successo di cassetta. La lavorazione inizia nell’autunno del ’48 e si conclude presumibilmente nel luglio ’51, dopo una serie di interruzioni, tra Roma, Venezia e il Marocco, alternando nel ruolo di Desdemona Lea Padovani, Betsy Blair, prima della scelta definitiva di Suzanne Cloutier, per non parlare dei vari direttori delle luci che si sono avvicendati all’obiettivo. Le riprese caotiche e intermittenti – con dialoghi che cominciano in Marocco e finiscono a Venezia, campi lunghi girati a Viterbo e controcampi a Ostia – rende complicatissimo il montaggio. Ma non si può rievocare in poche righe la storia di un film – un libro nel libro – in cui alla ricerca delle location corrisponde l’angosciosa caccia ai soldi che, avviandosi la Scalera al fallimento, potevano venire soltanto dai compensi per le prestazioni dell’attore – da Il principe delle volpi di Henry King a Il terzo uomo di Carol Reed – e dalle assillanti richieste di denaro rivolte a tutti i referenti possibili tra Europa e America.

Il fascino del libro coincide con la sua singolare capacità di ricondurre al mondo poetico di Orson Welles le committenze apparentemente occasionali come i progetti più misteriosi e irrealizzati. Da Cagliostro: «Nessuna pellicola come Cagliostro dimostra con altrettanta chiarezza il legame wellesiano tra finzione e politica» a Masquerade, la sceneggiatura ispirata all’Enrico IV di Pirandello, fino a ieri assolutamente sconosciuta: «Tutti i film di Welles vertono sul tema del tradimento, ma Masquerade sarebbe stato l’unico ad applicarlo esplicitamente al rapporto fra un padre e un figlio, in modo più diretto che in Falstaff, rimestando tra le sue angosce più profonde, come l’irrimediabile perdita del padre».