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Albert Maysles, l’amorevole innocenza

Albert Maysles, l’amorevole innocenzaAlbert Maysles

Filmmaker Addio a Albert Maysles, pioniere del cinema diretto, riferimento per molti giovani documentaristi. Il suo nuovo film, «Transit» sarà al prossimo Tribeca Fest

Pubblicato più di 9 anni faEdizione del 10 marzo 2015

Il suo ultimo film, Iris, è stato presentato l’autunno scorso al New York Film Festival. Quello a cui stava ancora lavorando, Transit, è annunciato tra qualche settimana al Tribeca Film Festival. E Grey Gardens (’75), uno dei suoi lavori più famosi, da cui sono stati tratti anche un film per HBO e un musical di Broadway, ha aperto venerdì sera con il tutto esaurito una settimana di programmazione al Film Forum. Albert Maysles è morto giovedì scorso a ottantotto anni, nella sua casa di Harlem, il quartiere dove viveva e dove dal 2006, opera il Maysles Documentary Center, un centro di produzione e programmazione del documentario.

Ma il suo lavoro è tuttora presentissimo, specialmente in questa città dove era facile incontrarlo, o raggiungerlo al telefono della sua casa di produzione piena dei giovani di cui amava circondarsi. Sempre informato, pronto a offrire il suo punto di vista su quello che stava succedendo nel cinema della realtà –come si può leggere negli stralci di intervista che pubblichiamo qui a fianco. Attivo dalla seconda metà dei cinquanta (Russian Close Up, del 1957, è il risultato di un viaggi in motocicletta in Unione Sovietica) e una delle colonne di quella grandissima generazione di documentaristi americani di cui fanno parte Fred Wiseman, Pennebaker, Richard Leacock e Robert Drew (anche lui recentemente scomparso), Al Maysles non ha mai smesso di credere nel cinema come strumento di scoperta delle realtà.

E quella fiducia nella possibilità di un’innocenza dello sguardo che ha guidato le sue esplorazioni -oltre cinquanta film, alcuni codiretti insieme al fratello David, alla montatrice Charlotte Zwering, e agli stessi Drew e Pennabeker…. Curioso, irrequieto, sempre generoso nei confronti dei suoi personaggi, con cui instaurava un rapporto di palpabile complicità (Scorsese ha definito «inquisitiva e amorevole» la sua macchina da presa), l’occhio di Maysles si è posato su realtà diversissime – da Truman Capote (With Love from Truman, 1966) a Marlon Brando (Meet Marlon Brando, 1965), da un gruppo di commessi viaggiatori di Bibbie (Salesman, uno dei capolavori, del 1968) ai Rolling Stones (Gimme Shelter, 1970), dagli artisti Christo e Jeanne-Claude (di cui ha filmato moltissme opere) a due lontane cugine di Jacqueline Kennedy, in una casa decrepita casa dagli Hamptons (Grey Gardens), alla stilista novantatreenne Iris Apfel (Iris). «Fare un film non è trovare la risposta a una domanda, ma cercare di catturare la realtà così come è», era il suo motto in un’intervista del ’94 apparsa sul New York Times. Obama gli ha consegnato la Medaglia nazionale delle arti solo qualche mese fa.

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